la Repubblica, 18 ottobre 2015
Storia della sinistra e del suo desiderio di mettere le tasse
TORINO. Sorprendentemente uno dei primi uomini politici a lanciare la parola d’ordine «Basta tasse»,fu, nel novembre del 1848, il direttore della «Nuova Gazzetta Renana», Karl Heinich Marx, che la stampò con grande evidenza in prima pagina. Lo fece come arma di lotta politica per invitare alla rivolta i tedeschi contro il colpo di stato della Prussia. È stato uno dei rari casi, va detto, in cui da sinistra, è giunto l’invito a non pagare i tributi. «Storicamente – ricordava su Repubblica l’ex ministro Vincenzo Visco – la contrapposizione sulle tasse è una discriminante fondamentale tra destra e sinistra... La sinistra ha promosso il welfare, lo vuole finanziare e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato. Per questo servono le tasse». Una impostazione che avrebbe portato l’ex ministro delle Finanze del governo Prodi a condurre una dura lotta all’evasione nel convincimento che il pagamento dei tributi possa servire a riequilibrare la distribuzione della ricchezza a favore dei redditi bassi. Che i ceti più ricchi fossero leggermente infastiditi è comprensibile. Uno dei leader dell’opposizione di allora, il giurista Giulio Tremonti, accusò Visco di essere «come un Dracula che succhia il sangue dei contribuenti». Sull’altro versante un economista riformista come Tommaso Padoa Schioppa, avrebbe lapidariamente definito la linea della sinistra: «Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come istruzione e salute». Ma questo è solo l’epilogo di una lunga guerra. La questione fiscale tormentava un socialista come Pietro Nenni, che all’inizio degli anni Sessanta annotava nel suo diario una confidenza ricevuta da un alto dirigente della Banca d’Italia: «La borghesia italiana non ha pagato le tasse sotto il fascismo, non ha pagato durante la guerra, continua a non pagare».Evidentemente invertire la tendenza non era facile nemmeno per il primo governo di centrosinsitra. Il mito da seguire è quello di Robin Hood che rubava ai ricchi per distribuire ai poveri. Le tasse sono sempre state concepite a sinistra come una strada legale per temperare le diseguaglianze del capitalismo. Con il linguaggio felpato che lo ha sempre contraddistinto è il concetto che esprime Giuliano Amato nel luglio del 1992, al momento della maxi manovra che serve all’Italia per entrare in Europa: «Non c’è stato l’intervento sull’Irpef, abbiamo deciso una patrimoniale sugli immobili.. È più giusto che si tagli sulla ricchezza e sui suoi sintomi che non sulla povertà». Eccessi di zelo in questo senso sono stati pagati cari al momento delle elezioni. Alla fine degli anni Novanta il governo dell’Ulivo introdusse il nuovo 740, un ginepraio di venti pagine con domande di ogni tipo a prova di truffa, per inchiodare il contribuente alle sue responsabilità.Insorse addirittura il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro: «Basta fisco lunare. I cittadini hanno diritto a moduli comprensibili». Forse non appartiene alla categoria degli eccessi di zelo ma ancora oggi rimane impressa nei ricordi degli italiani come le notti dei mondiali di calcio: è la notte del 28 aprile 2008 quando il viceministro Visco fa pubblicare sul sito dell’Agenzia delle entrate l’elenco dei contribuenti e l’imponibile che dichiaravano. Nel giro di pochi secondi un esercito di sceriffi di Notthingam si scaglia contro il gesto di Visco-Robin Hood. Da allora l’imbarazzante papello scomparì per sempre dagli schermi dei computer. La guerra contro le tasse è stata la parola d’ordine di maggior successo di Berlusconi. Il 17 febbraio 2004, nella sala stampa di palazzo Chigi, l’uomo di Arcore dà fuoco alle polveri: «Se si chiede una pressione fiscale del 50 per cento ognuno si sentirà moralmente autorizzato ad evadere».L’annuncio suona come un liberi tutti. L’evasione, per chi se la può permettere, è moralmente giustificata. Insieme alla promessa, per chi le tasse è costretto a pagarle, che il fisco sarà benevolo. Tremonti, l’accusatore di Visco, annuncia solenne: «Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani». La metafora veicola il concetto per cui le tasse sono un furto come quello che compie con destrezza il rapinatore di strada che sfila il portafogli dalle tasche dei malcapitati. Il successo sembra assicurato. Ma nel 2011, quando l’Europa chiede all’Italia di rientrare nei parametri, Tremonti e Berlusconi litigano proprio sulle tasse e si dimettono. Il bilancio finale della loro cura è l’aumento della pressione fiscale dal 42 al 44 per cento. E questo nonostante l’abolizione dell’Ici, una scelta che pochi mesi dopo Mario Monti, non certo un esponente della sinistra, giudicherà pesantemente: «Sono costretto ad aumentare le tasse per colpa di alcuni irresponsabili». Il Renzi che definisce semplicemente «giusto»abbassare le tasse,senza specificare a quali categorie di cittadini, sembra voler chiudere, con una certa ambizione, il dibattito che ha attraversato la sinistra mondiale nel Novecento. E dire che il santo protettore del premier, l’apostolo Matteo, di mestiere faceva l’esattore delle imposte.