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 2015  ottobre 18 Domenica calendario

Ritratto di Antonio Mancini, pittore di scugnizzi, un napoletano che capì l’Irlanda e fu amato da Yeats

Napoli, 1865. In città vivono 125 principi, trecento duchi e un numero ignoto di scugnizzi, piccoli fiocinieri, acquaioli, fioraie, garzoni con la prima ombra di barba. È in questa Napoli incastonata tra il Vesuvio e gli abissi urbani che, da Roma, arriva Antonio Mancini. Ha appena tredici anni, la sua umile famiglia lo vorrebbe a servizio presso qualche bottega ma il fuoco che il bambino ha negli occhi scoraggia qualunque bassa aspirazione proletaria.
Impara a scolpire la pietra presso Stanislao Lista, studia all’Accademia delle Belle Arti, tutti i giorni guarda la carovana dei ragazzini senza destino che scivola nei vicoli della città assolata con un misto di gioia e dolore. Come se sentisse stranamente vicina, troppo vicina, tutta quella vita che scorre veloce e sporca, lisa e prezzolata. Sì, comincia a dipingere gli scugnizzi.
Nella mostra alla Gam Manzoni (leggi qui) ce ne sono alcuni. Non c’è retorica né tantomeno facile compassione: la lezione verista di Domenico Morelli in Mancini si decompone come una nuvola che si disgrega in cirro: la povertà si polverizza nel colore, lo sguardo assente si infiamma ora di rabbia nera ora di gioia sfrenata, i due unici poli nei quali oscilla il (ridotto) ventaglio emotivo di un animo semplice.
Mancini è bravo. Studia la lezione dei classici (Sebastiano del Piombo, Tiziano), impara a dipingere all’antica maniera, usando doppi teleri. Sfarina colori, gesti, membra, capelli, vestiti a brandelli. In tutti i monelli che ritrae brilla quella luce feroce. Ma, accanto, Mancini gli mette un libro o un violino. Come a proteggerne la sorte: l’arte quale talismano, rituale sciamanico-partenopeo, come un corno rosso, ma d’altra materia. Dipinge come un forsennato, gli viene la febbre mentre getta colore, cesella un naso, una bocca.
Non si accorge che in ognuno di quei ragazzi mette il proprio autoritratto? Sì, lo sa bene, come lo sapeva bene il suo coetaneo e concittadino, Vincenzo Gemito, con il quale Mancini condividerà follia e miserie spirituali. Poi Antonio se ne va.
Parigi. I salotti, i profumi i mercanti (come il solito, onnipresente Goupil), le donne bellissime. Troppo. La sua fragilità intima non regge la mondanità imposta da un circo elegantissimo, sì, però finto come una buona maniera. Quasi impazzisce quando se ne va l’amato Luigiello, lo scugnizzo preferito che lui aveva fatto venire apposta da Napoli, uno dei tanti saltimbanchi che ha dissipato nei colori, nei rossi, nei neri, nei gialli.
Antonio torna a Napoli, entra in un istituto per malati di nervi. Comincia a osservare gli altri ospiti del manicomio, ne riconosce i tratti deformati dalle allucinazioni, smette di dipingere per un anno, dal 1881 al 1882. Ha appena trent’anni!
Poi la svolta: riprende furiosamente a ritrarre, quasi scortica la tela, con quella mania che poi gli varrà l’ammirazione dei londinesi e, soprattutto, degli irlandesi. Perché Mancini, nel 1907, «conquista» Dublino: all’epoca la città cercava un baricentro culturale scavando anche nello stile italiano e i suoi ritratti colpirono molto il poeta William Butler Yeats.
Fu lui, dunque, un poeta (e paradossalmente non un critico d’arte) a cogliere l’intima natura di Mancini: Yeats lo accostò al Cortegiano di Baldassarre Castiglione e alla sua «sprezzatura», ovvero la capacità di fare grandi e raffinate cose con il minore sforzo possibile. Perché quei volti uscivano dalla mano dell’italiano come se non avessero mai avuto altra sorte plausibile.
Mancini avrà il riscatto della sua vita vissuta in follia: da Parigi a Londra a Roma a Venezia gli verranno tributati onori e riconoscimenti, nel 1920 la Biennale di Venezia gli dedicherà una personale. Alla fine, nel 1930, non gli rimarrà che morire, ma prima volle congedarsi a modo suo: con un Autoritratto con turbante rosso, estremo tentativo di mettere in scena l’opera buffa di un uomo molto solo, molto fragile, molto nudo.