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 2015  ottobre 17 Sabato calendario

Paolo Poli che legge “I Promessi sposi” e trova insopportabili Renzo, Lucia e la loro parlata toscana sul lago di Como

Adesso tocca al Kamasutra…
«Orrendo. Perché uno si aspetta chissà che cosa sul sesso e invece è tutta una piattezza. Consigli alle prostitute: bisogna essere gentili con il cliente. Insomma cose ovvie. Cosa vuole... è un antico libro. Ma dovendo leggere come fai a superare la piattezza? Strizzi l’occhio al lettore?». Paolo Poli, 89 anni, protagonista del teatro italiano, è un grande lettore (riluttante) di classici per gli audiolibri. Da Emons sono usciti il 15 ottobre I Promessi Sposi; in agosto, «con un caldo africano», ha registrato Il Kamasutra che uscirà nel 2016. «È lavoro. E io detesto lavorare, come detesto la cucina anche se ho fatto l’audiolibro dell’Artusi. Starei più volentieri sul letto a leggere per i fatti miei che quando mi viene l’abbiocco almeno dormo». È faticoso leggere per ore testi come questi?
«È faticoso perché verso i 90 anni gli occhi non sono più quelli della gioventù. Ora devo mettere l’ingrandimento. Tutti i mesi vado a Firenze a farmi fare operazioni agli occhi per la macula».

Quando ha letto I Promessi Sposi per la prima volta?
«A otto anni ho avuto la scarlattina e divoravo due tre libri al giorno. Una volta che non avevo testi più gustosi ho preso quello. Avevo però un’edizione Salani che diceva: se non volete leggere le grida dei bravi andate a pagina tot. E così, con i riassunti sono arrivato in fondo. Poi l’ho studiato molto bene, tutte le edizioni, fino alla Quarantana dove i cattivi sono buoni fin dall’inizio. È un bel libro. Certo, a me piace di più Pinocchio, anche se ho odiato l’editing di Emma Perodi che cambiò il finale facendolo diventare un bambino perbene».
Sì, ma Manzoni?
«Quante volte si è rimesso il povero Manzoni a riscrivere il romanzo? Poi ha capito che doveva levare tutte le cattiverie. Così, in mano ai preti, avrebbe avuto successo. Tre capitoli per dimostrare che la povera Gertrude era stata monacata per forza, poi tre parole per i suoi peccati: la sventurata rispose. I Promessi Sposi voleva essere un’avventura alla Walter Scott che allora spopolava in Italia come in Europa e lui forse ha avuto il baleno di fare questa scelta entrando in Duomo all’epoca della festa di San Carlo Borromeo, quando espongono i teleri di un grande pittore, il Cerano: tutti i miracoli tra i quali uno in cui si vede San Carlo nel lazzaretto. Forse così gli è venuto in mente di scegliere la peste. Anche perché all’epoca tutti avevano provato forme di pestilenza. L’ultima era la spagnola. Mia nonna, per esempio, ha avuto sei figli: tre sono morti».
Che cosa le piace dei Promessi Sposi?
«Le descrizioni. E la lingua, anche se per dire che ha riunito l’Italia bisogna fare un falso storico. I contadini di Manzoni parlano in toscano e sono sul lago di Como. Io ci sono andato da bambino a Como. Entro in un negozio e sento: en chil de ris, un chilo di roso. Invece qui Renzo dice all’oste battendo con le nocche sul fiasco: “Senti come e’ suona a fesso”, per dire che è vuoto. Ci sono delle bellurie. Come ci sono in Pellegrino Artusi che ha trovato una bella lingua toscana per raccogliere ricette non solo toscane».
E i personaggi?
«Don Abbondio doveva essere il protagonista. Sono i due fidanzati che proprio non piacciono. Quando io ho insegnato, solo un anno, al liceo, i ragazzi il libro me lo sputavano. Sono riusciti i personaggi barocchi: Don Ferrante, Donna Prassede. Il cattivone, don Rodrigo, è anche spiritoso. Il frate, nonostante sia uomo di chiesa, non riesce a essere odioso perché è stato uno spadaccino, perché ha avuto un passato».
Ma Lucia merita davvero tutta l’antipatia che raccoglie?
«In Fede e bellezza di Tommaseo ci sono una coppia di innamorati. Lei gli dice: siamo poveri cosa posso darti? Ti darò la mia verginità. Al giovanotto, capisce? Non alla Madonna. Ci si affeziona di più ai personaggi che hanno non dico peccati, ma almeno debolezze, ombre e penombre. Invece questi due contadini... Manzoni avrebbe fatto meglio a pagarli di più, i contadini, invece che farli belli nei romanzi».
Artusi, di cui ha letto per Emons La scienza in cucina, sembra esserle rimasto nel cuore.
«Prima di lui la cucina sembrava dei francesi. C’erano traduzioni orribili: “prendete la volaglia...” per dire la cacciagione. Ma d’altronde, anche quando ero bambino io certi negozi conservavano dei francesismi, come lingeria. No, ecco, sull’Artusi ho imparato a leggere grazie alle frittelle di San Giuseppe che si fanno a metà marzo in Toscana. Appena vedevo il riso cominciavo a fare la lagna con la mia nonna e con il ditino ho cominciato a sfogliare il volume. Anche se, come ho detto, la cucina io la detesto, non amo mangiare né pensare al cibo».