il venerdì, 16 ottobre 2015
Storia di Lorenzo Annese, il primo operaio italiano alla Volkswagen, e di wolfsburg, una città dove tutto è targato VW, anche i würstel
Il primo italiano mai assunto in Volskswagen riuscì nell’impresa grazie all’abilità tutta meridionale di arrangiarsi. Un piccolo inganno. Oggi, nonostante lo scandalo che si è abbattuto sulla casa automobilistica, è un pensionato ancora fedelissimo all’industria a cui ha dedicato la vita.
Se non lo si sentisse parlare sembrerebbe un perfetto tedesco e anche le ragioni con le quali difende il futuro della macchina del popolo sembrano più di stampo teutonico che meridionale: «Nonostante lo scandalo» dice Lorenzo Annese «continuo a essere orgoglioso di questa fabbrica che ha dato pane e lavoro alla nostra città e non solo. Non credo che la fama della Volkswagen meriti di essere completamente calpestata. Certo, dobbiamo capire perché è stata commessa la frode. Bisogna ricostruire quel che è accaduto e punire i responsabili. Sono sicuro che le condanne arriveranno». Annese oggi ha settantotto anni, lasciò Alberobello, nelle Puglie, nel 1958. Vive in una casa di campagna che si costruì con le sue mani poco fuori Wolfsburg.
Quando lasciò Alberobello con un contratto di sei mesi come agricoltore – Gastarbeit, lavoratore ospite della Germania – approfittò dell’accordo firmato esattamente sessant’anni fa fra il governo italiano e quello della Repubblica federale tedesca per il reclutamento e il collocamento di manodopera italiana in Germania. Venne come molti connazionali in Bassa Sassonia, ma mentre viveva del lavoro nei campi, sognava questa fabbrica tanto favoleggiata.
Le sue domande di assunzione venivano regolarmente respinte. Fino al giorno in cui finse di voler partecipare a una visita guidata della fabbrica, abbandonò il gruppo, s’intrufolò fra i corridoi labirintici, raggiunse l’ufficio del personale e mostrò tutta insieme la sua determinazione.
Annese, il primo italiano a lavorare in Volkswagen cui Stern nel 1965 dedicò un articolo fotografandolo di fronte a casa, divenne presto anche il primo straniero a entrare nel Consiglio di fabbrica, un sindacato interno che include, attraverso un sistema di consultazione molto capillare, gli operai anche nella gestione della fabbrica. Era il 1965 e il numero di italiani intanto aveva cominciato a crescere. All’epoca della Cortina di ferro, la Volkswagen, geograficamente molto vicina al confine con la Germania comunista, non aveva più la possibilità di attingere alla manodopera straniera proveniente dall’Est. E così la fabbrica del Maggiolino dal 1962 iniziò ad assumere italiani che rimasero l’unico gruppo straniero negli stabilimenti fino al 1970, quando la Volkswagen aprì anche a lavoratori tunisini.
Ma gli italiani continuarono a essere la nazionalità leader: «Ogni avvertimento, ogni cartello, anche quelli dei bagni, erano scritti in tedesco e in italiano» racconta Nicosia Cono, siciliano arrivato a Wolfsburg nel 1964.
Annese fu invitato a rappresentare i suoi connazionali «Pensai agli italiani allora, perché ne capivo la lingua e i problemi. Oggi penso a tutti i lavoratori perché gli errori altrui non possono ricadere sulle loro spalle» dice alludendo alla bufera che ha travolto l’azienda. Ma, rispetto a quegli anni, tutto è cambiato. L’unica cosa rimasta immutata è l’identificazione completa della città con la sua industria.
Tutto era cominciato nel 1938 quando Adolf Hitler decise di fondare qui, dalle parti di Fallersleben, la fabbrica che potesse sfornare per ogni tedesco la macchina del popolo, ossia quello che sarebbe diventato il celebre Maggiolino. La città sorse assieme alla fabbrica. E già allora un contributo italiano arrivò. Paolo Brullo, cittadino di Wolfsburg, da poco eletto membro del Consiglio generale degli Italiani all’estero, racconta: «L’intenzione degli architetti nazisti era quella di realizzare strutture abitative in grado di alloggiare le maestranze con le loro famiglie e per riuscirci in fretta fu richiesta manodopera a Mussolini». I lavori però s’interruppero per cause di forza maggiore. Con la guerra, la fabbrica fu utilizzata per rifornire di armi l’esercito tedesco e si dovette aspettare la fine del conflitto perché la produzione del Maggiolino riprendesse. Fu allora che la Volkswagen iniziò a crescere e il mito dell’auto tedesca si diffuse in tutto il mondo. Da quel momento la storia di fabbrica e città sono indissolubilmente legate.
Le quattro ciminiere di mattoni rossi costruite al tempo del nazismo sono ancora il simbolo di Wolfsburg, che vive in simbiosi con la sua industria automobilistica, tanto che la chiamano ancora die Volkswagen Stadt, la città della Volkswagen.
Gli abitanti di Wolfsburg sono circa 125 mila, di cui quasi 30 mila impiegati alla VW, che ha in tutto 57 mila dipendenti. I ritmi della città e del traffico sono legati agli orari dei tre turni che coprano le 24 ore. Il sogno di ogni ventenne è ancora entrare a lavorare in fabbrica e non c’è quasi nessuno in città che non abbia tentato almeno una volta di inoltrare la domanda di lavoro al colosso dell’auto. Secondo Rocco Duccio, nato a Wolfsburg, cameriere di Vini d’Italia, «procurarsi un posto di lavoro alla Volkswagen è come vincere al Totocalcio». I cittadini di Wolfsburg, tedeschi o italiani, tifano la loro squadra che quest’anno ha vinto la coppa Germania. I festeggiamenti avvengono alla Volkswagen Arena, uno stadio avveniristico, dove è possibile incontrare tifosi con i famosi currywurst, würstel che a Wolfsburg sono anch’essi targati VW (ne vengono prodotti circa 6,5 milioni ogni anno, principalmente per rifornire le mense).
Ci si avvicina sempre più all’utopia della fabbrica integrale, quella che si occupa dei lavoratori anche quando hanno finito il turno: soddisfazione dei lavoratori, cura della salute e del tempo libero sono obiettivi di chi crede che l’identificazione dell’operaio con la fabbrica sia la strada obbligata per la crescita della produttività. «Quel che fecero per noi la dice lunga» racconta Annese. «Dopo di me il numero di italiani crebbe enormemente. La Volkswagen allora decise di organizzare, per le vacanze estive e natalizie, treni diretti verso il sud Italia. Erano momenti molto emozionanti. Partivano vagoni carichi di aspettative e di doni destinati alle famiglie, per tornare dopo due settimane con la nostalgia che si può immaginare».
Dai 3.188 operai assunti nel 1962 la crescita fu impressionante. Si arrivò nel 1970 a contare 7.383 italiani. «Capimmo» continua Annese «che la politica della fabbrica nei confronti dei lavoratori italiani doveva evolversi. I bisogni erano cambiati. Per molti Gastarbeiter era ormai un’esigenza potersi radicare in Germania e ricongiungersi con i parenti rimasti al Sud. Fu così che la Volkswagen decise di abbattere le baracche del Berliner Brücke, per costruire palazzine dove potessero essere accolte anche le famiglie.
Fu da allora che la presenza di italiani in VW non coincise più con il numero di italiani residenti in città». Nel 1975 i nostri lavoratori erano 2.928 mentre la comunità residente in città superava le 6.600 unità. Oggi gli italiani del comune di Wolfsburg sono circa 8 mila di cui 1.570 in fabbrica.
Questo meccanismo di identificazione fa sì che sia davvero difficile trovare oggi in città qualche voce dissonante dal coro aziendalista. «Nei primi giorni dello scandalo emissioni la paura ha prevalso» racconta Paolo Brullo. «La città era sotto shock. Si temevano nel breve termine provvedimenti come la riduzione dell’orario di lavoro o il mancato rinnovo dei contratti. Ma i vertici aziendali hanno assicurato che un simile scenario è da scartare. Negli operai e nei cittadini cresciuti in questa culla si è confermata la convinzione che il colosso industriale andrà avanti senza gravi ripercussioni. Del resto, le immediate dimissioni dell’amministratore delegato Martin Winterkorn sono il primo segnale che l’azienda vuole andare fino in fondo».
Come si usa dire in Germania «le scope nuove puliscono meglio» (neue Besen kehren besser). Adesso la scopa è nelle mani del successore, Matthias Müller, l’uomo chiamato a non deludere le aspettative di una intera città.
Giulia Pesce