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 2015  ottobre 16 Venerdì calendario

Il fratello di Al Capone che dava la caccia ai banditi. Si chiamava Vincenzo James, cambiò il suo cognome in Hart, ma per tutti era Two Gun. Storia di uno sceriffo cowboy licenziato perché arrestava gli intoccabili

Alphonse Gabriel Capone, in arte Scarface Al, passato alla storia come Al Capone, aveva otto fratelli. Tutti nati a Brooklyn, dove nel 1906 emigrò da Angri (Salerno) il padre Gabriele, droghiere, e la moglie Teresina Raiola. Tutti di Broccolino, tranne uno: il primogenito, nato ad Angri come i genitori, il 28 marzo del 1892. Si chiamava Vincenzo ed era la nemesi di Scarface. Il suo contrario.
Così come il fratello Al si arricchì con gli speak easy, i locali dove a Chicago si spacciava alcol negli anni del Proibizionismo, all’opposto l’altro fratello Vincenzo si bucò la camicia con la stella di sceriffo di Homer, in Nebraska, divenne agente del Bureau of Indian Affairs nelle riserve indiane in South Dakota, passò una vita a smantellare le distillerie che vendevano agua ardiente alle tribù Oglala, e venne soprannominato dai capi della riserva Two-Gun, Due-Pistole, per via delle doppie Colt che portava sempre alla cintola.
Vincenzo J. Capone fu quel tipo di poliziotto che, più tardi, avrebbe ispirato a Hollywood la figura dell’ispettore Harry Callaghan, interpretato da Clint Eastwood: Dirty Harry, Harry la carogna. Lui, invece, che imparò la lingua Omaha e addirittura il dialetto Lakota, veniva vezzeggiato dai ragazzini Oglala con il nomignolo di Soiko, che vuol dire «grande uomo nero e peloso».
I due fratelli Capone. Uno boss dei boss, l’altro sbirro leggendario. Una storia poco conosciuta e straordinaria, di quelle che la fabbrica dei sogni a stelle e strisce sa ben distillare. Solo che questa è vera. Oggi un editore di Mantova, Vittorio Bocchi, è riuscito a trarla dall’oblio, grazie all’autorizzazione degli eredi a spulciare dentro i cassetti di famiglia. Ne è uscito un sobrio libretto, curato dallo stesso Bocchi (L’altro italoamericano. La straordinaria storia di Vincenzo James Capone: Two-Gun, il fratello di Al Capone, MnM edizioni, pp. 60, euro 10) che avrebbe fatto gola a ogni scrittore di avventura. Perché gli eredi hanno acconsentito? Spiega Bocchi: «Da poco tempo la famiglia, che si chiama Hart, ha accettato di mettere accanto al cognome “adottivo” anche quello vero di Capone. In passato, mi hanno detto, hanno avuto bei problemi».
Comprensibile. Chiamarsi Capone, negli Stati Uniti, non è mai stato facile. Non lo fu neppure per Vincenzo che, lasciata Brooklyn, abiurò il cognome sinistro e al suo posto scelse quello dell’eroe cinematografico preferito: l’attore William Surrey Hart, la terza icona del cinema muto dopo Tom Mix e Broncho Bill. E partì alla conquista del West vestito come l’eroe di celluloide: Stetson western in testa, foulard rosso con fibbia per bolo al collo, camicia a scacchi, gilet arabescato, lunghe polsiere in cuoio, jeans di velluto, stivaloni country, cinturone di pelle con due Colt 45. Solo che queste non erano, come nei film, caricate a salve.
Selvaggio West. In quegli stessi anni, il fratello Scarface ne sta facendo assaggiare un pezzetto alla civile comunità di Chicago. L’ex guardaspalle del gangster Johnny Torrio, violento e sregolato, scala la gerarchia, tra bische e bordelli. La «musica dell’ukulele» (come era chiamata la raffica del mitra) non è mai doma. Miete centinaia di cadaveri, in strade e locali ricolmi di bulli, pupe, pistole, be-bop e fiumi di cattivo whisky. Persino lui, Scarface, l’angelo sterminatore della città, deve girare su una Cadillac con carrozzeria blindata, motore d’acciaio, finestrini spessi cinque centimetri a prova di proiettile, lunotto posteriore rimuovibile (per poter rispondere al fuoco dall’interno). La Caddy pesa sette tonnellate. I picciotti la chiamano «Fortezza a quattro ruote». Capone ha fatto venire tanto mal di testa all’altro boss, Lucky Luciano, che questi per fermarlo deve inventare una Commissione che riunisce tutte le famiglie, con un capo assoluto a comandarla. Nasce così la moderna Cosa Nostra.
A Two-Gun, invece, bastano le mani da orso. Arriva in Nebraska, lavora in un circo, diventa un gran tiratore, va in guerra nel 1917, viene decorato. Nella primavera del 1919 scende da un treno merci a Homer, villaggio di 500 abitanti a 16 miglia dal Missouri, nel vasto territorio della nazione indiana di Siouxland, che comprende tre stati americani (Iowa, Nebraska, South Dakota). Dice di chiamarsi Richard J. Hart e di essere un cowboy dell’Oklahoma. Da quel momento, tutti i buchi della narrazione sulla sua vita verranno colmati da frammenti tratti dai film del suo eroe William Hart.
Con le pistole tira giù file di bottiglie dalla staccionata dietro il circolo dell’American Legion. La carnagione olivastra lo fa apparire un mezzo indiano. Lui avalla l’ipotesi. Mentre suo fratello Al a Chicago diventa ricco con il crimine, lui fa l’imbianchino, il tappezziere, il cronometrista dei treni. Salva una famiglia da un alluvione, ne sposa la ragazza diciannovenne. Tutti a Homer amano il cowboy. Gli offrono la stella di sceriffo. Accetta.
Nel gennaio del 1919 l’America approva il Volstead act. E il 17, giorno del compleanno di Al Capone, scatta il divieto di bere. L’anno dopo il governatore nomina lo sceriffo di Homer «agente federale del Proibizionismo». Ben presto i bootleggers del Nebraska, distillatori e contrabbandieri, imparano a temere Two-Gun. A Martinsburg demolisce cinque laboratori clandestini, a Randolph cattura venti personaggi in vista. A Spencer arresta un collega sceriffo. «Il suo nome è sufficiente a terrorizzare i criminali» scrive la stampa.
La sua fama cresce. Il Bureau per gli affari indiani gli chiede una mano. Diventa l’angelo custode dei nativi americani. Nel ’29, in Idaho, guida la caccia a un indiano benestante che ha ucciso la moglie. Lo stana e lo riporta vivo. Si immerge tanto nella cultura dei nativi da affermare: «L’indiano che uccide un uomo è diverso dal bianco, perché non ne parla e non ha rimpianti. Crede di essere giustificato, si dimentica. Non ha rimorsi».
Ama farsi fotografare. E anima i balli del week end nelle riserve, suonando fisarmonica, tromba, pianoforte. Poi si accorgono all’improvviso che usa i pugni, spara sui gangster, arresta gli intoccabili. Lo licenziano in tronco. E una notte i parenti di un trafficante steso anni prima lo massacrano con i tirapugni. Perde un occhio. Morirà nel ‘52, povero e dimenticato. Intanto, altri personaggi che hanno ispirato il cinema stoppano Al Capone. Gli Untouchables, team di poliziotti incorruttibili (come da film dell’87 di Brian De Palma) scrivono la parola fine all’epopea di Scarface. Il nomignolo significa «lo sfregiato»: gli era stato affibbiato a 16 anni, per via del taglio da coltello in una rissa tra gang. Nell’occasione il futuro Al Capone era stato difeso dal fratello maggiore. Il futuro sceriffo Vincenzo aveva scaraventato l’aggressore contro una vetrata. Era stata l’ultima volta che si erano sentiti fratelli per davvero.