Sette, 16 ottobre 2015
Viaggio nell’ippodromo di San Siro, a 60 anni dalla clamorosa vittoria di Ribot. Era il 23 ottobre 1955
Mancheranno cinque giorni domani l’altro, domenica. Quest’anno, quando una decina di purosangue si disputerà il Gran Premio del Jockey Club sui 2.400 metri di pista all’ippodromo di galoppo di San Siro, mancheranno cinque giorni al sessantesimo anniversario del 23 ottobre 1955: allora, al Jockey trionfò l’assoluto eroe equino dell’Italia, il “cavallo del secolo”, ovvero Ribot. Quella vittoria se la gioca con altri trionfi memorabili – magari di ancor più forte eco internazionale – nel palmares del campionissimo, cresciuto nella scuderia Dormello Olgiata, allevato da Federico Tesio (“il mago”, come lo chiamava un grande giornalista, non solo di ippica, Mario “Marion” Fossati) e guidato nelle sue sedici vittorie in carriera da Enrico Camici. E però è blasone che si riverbera sull’evento clou della stagione autunnale di Milano galoppo: con i purosangue “giovani” – cioè, di tre anni – opposti alle generazioni maggiori, più esperte, lungo un miglio e mezzo di passione e spettacolo che regala emozioni infinite sin dalla prima edizione del 1921 (ora siamo alla novantatreesima, saltò solo quella del 2008, si corse anche durante l’ultima guerra, sotto la “protezione” tedesca).
L’area di San Siro, negli ultimi anni, non ha vissuto tempi troppo tranquilli: crisi generale dell’ippica e del gioco a questa collegato, cambiamenti nella compagine proprietaria, progetti e ipotesi di sviluppo anche contrastanti fra loro. Ma resta una zona sensazionale: un milione e mezzo di metri quadri appartenenti alla Snai con la Trenno (una società del gruppo) che gestisce gli impianti sportivi: ovvero l’ippodromo del galoppo, una pista di allenamento, l’antico ippodromo per il trotto – quello eccessivamente a ridosso dello stadio Meazza – attualmente sigillato e in attesa di una plausibile e proficua nuova destinazione, e La Maura, il nuovo impianto per quest’ultima specialità, inaugurato la scorsa primavera, veloce e moderno, ottenuto “trapiantando” buona parte delle attrezzature e del fondo che stavano nell’ippodromo dismesso.
Quando venne Hemingway. In più, mille angoli da scoprire: le casette bianche e nere delle scuderie, come si fosse nella campagna inglese, un paio di ville private anche queste ippicamente votate, le strutture del galoppo, con gli edifici primo Novecento, la splendida terrazza per proprietari e loro ospiti da cui si vede la Milano vecchia e nuova (ossia, la Madonnina ma anche la torre Unicredit, la Rai di corso Sempione, Citylife e il Palasharp...), nonchè un parco botanico creato dal tradizionale impegno per ogni vincitore che pianta il seme di una pianta del proprio paese. Rispetto ad altre nazioni europee, il mondo moderno dei cavalli è arrivato tardi in Italia, come spiegava Luigi Gianoli, storico giornalista della Gazzetta dello Sport, in Il purosangue (Longanesi), aggiungendo poi: «L’ippica milanese è nata, in un certo senso, tardi nei confronti di altre città italiane (soprattutto a causa delle vicissitudini politiche), ma quando ha voluto affermarsi ha trovato... persone di estrema competenza... che hanno saputo in breve creare... la più perfetta pista da corsa del mondo e quello che è stato per molti anni uno dei più grandi e razionali complessi di allenamento in Europa». Raccontato anche da Ernest Hemingway in Addio alle armi: «Noi quattro andammo a San Siro in una carrozza scoperta. Era una bella giornata e attraversammo il Parco e seguimmo il tramvai e poi fuori della città dove la strada era polverosa... Molte carrozze entravano nell’ippodromo e gli inservienti al cancello ci lasciarono entrare senza biglietto, perchè eravamo in uniforme. Scendemmo dalla carrozza: comprammo i programmi e attraversammo a piedi il prato e poi la soffice pista del percorso verso il recinto del peso... Il pesage era pieno di gente e facevano passeggiare i cavalli in cerchio sotto gli alberi dietro la tribuna principale».
«L’ippodromo del galoppo e il nuovo ippodromo del trotto La Maura di Milano sono impianti sportivi con caratteristiche tecniche di eccellenza a livello internazionale. Le piste del galoppo e del trotto sono inserite all’interno di ampi parchi a disposizione per il tempo libero di famiglie, giovani e bambini. L’impegno della nostra società è quello di continuare a garantire la bellezza, la cura e il funzionamento di questi spazi unici al mondo», promette ora Gabriele Del Torchio, presidente Trenno e Snai Spa. Domani, intanto, le signore cominciano a riflettere sul copricapo da indossare (nei dintorni del turf, in queste occasioni, i cappelli contano assai: non siamo ad Ascot, ma qualche sensazionale stravaganza non mancherà su qualche testa femminile). Domani, anche, cominciano a presentarsi i cavalli, scaricati dai van nelle scuderie delle piste di allenamento (un secolo fa, gli animali venuti da lontano, arrivati alla stazione Centrale, attraversavano al passo tutta la città). Nell’ippodromo vero e proprio entrano verso mezzogiorno del giorno di corsa, per sistemarsi alle scuderie dell’insellaggio. Lì si incontrano, sbuffano, si riconoscono, ostentano ognuno tic e umori, accuditi dal team della scuderia (proprietario, allevatore, allenatore, fantino, artiere, maniscalco, ma qualcuno anche seguito dal dietologo o dal pranoterapeuta) intento a studiare la delicata fase della ferratura (come in Formula 1, quando si tratta di scegliere gli pneumatici). È il prologo all’ultima fase prima dei due minuti di gara. Il passaggio al tondino, prima senza fantino poi con lui in sella. Ed è qui che chi scommette (tutti, cioè) sceglie con occhio lungimirante o si perde dietro astruse deduzioni, magari elaborando scaramantici cerimoniali. A cui, detto per inciso, non pare che la Trenno sia troppo sensibile: alla direzione della società si accede da via Eugenio Montale, il poeta che, in Ossi di seppia, evoca «un cavallo stramazzato» come immagine del «male di vivere» che «ha incontrato». Ma torniamo alla corsa che verrà. Appena prima del via, si svuotano i tre ristoranti e gli altri luoghi ameni del complesso. Tutti allo steccato, o nei posti comodi della bella palazzina creata nel 1910 dall’architetto Paolo Vietti-Violi e oggi – come del resto l’intero complesso – vincolata dalla Soprintendenza (c’è anche la Scala Reale, prevista per l’ingresso dei sovrani e decorata da una bella porta in ferro battuto su cui spicca una scritta allora ossequiosamente studiata: S.I.R.E., ovvero Società Incoraggiamento Razze Equine).
L’imprevisto in agguato. Sessant’anni fa, Ribot coprì i 2.400 metri del percorso in un tempo di 2.34 2/5 con 15 lunghezze su Norman, vincitore l’anno prima (altre cronache discordano e calcolano in otto le lunghezze di distacco, comunque un abisso): l’anno scorso Dylan Mouth ha vinto in 2.34.50 (da cui si deduce che il progresso “atletico” fra i cavalli non è sensibile come fra gli umani...). Del resto, non tutto e non sempre è prevedibile nel mondo dell’ippica. Scriveva Fossati, nel 2002, per il numero 185 de Il purosangue: «Ribot aveva un torace di una profondità incredibile: dovettero fargli un giro di cinghia di venti centimetri più lungo della norma. Le voci di scuderia erano promettenti, e pure velate, velate di un’ombra di dubbio. L’intelligenza non è, forse, dubbio? “È leggero nel treno posteriore”. “Si allunga, fino a toccarsi: si ferisce ai glomi”». E Camici: «Ha le spalle perfettamente inclinate. Nei salti di galoppo, si raddoppia: un gattopardo»... Venne messo sul tavolo anche l’albero genalogico: «Figlio di quei due: di Romanella “la pazza” (che oltre tutto soffriva di formelle) e di Tenerani, verso cui Tesio aveva uno strano rapporto di amore e di odio». Se ne ricordino i patiti che compulsano tabelle e pesi del Gran Premio in arrivo: molte cose possono cambiare, dal ciliegio che decora il tondino fino al traguardo.