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 2015  ottobre 16 Venerdì calendario

Casarsa della Delizia, la terra di Pasolini, 65 anni dopo averlo espulso si riconcilia definitivamente con il suo figlio “diverso”. «La memoria è un tessuto che va ricucito pian piano, altrimenti si strappa. E la memoria, oggi, prende il nome di Centro studi Pier Paolo Pasolini»

Chissà cos’avrà pensato, vedendo quello strano omino dipinto riaffiorare dalla parete dell’antica chiesetta, mentre – armato di cipolla, secondo gli antichi rimedi – insieme con i suoi ragazzi grattava il muro per estrarne gli affreschi. E chissà cosa deve aver pensato quell’omino, probabilmente raffigurante il committente di questi dipinti, nel vedere che a riportarlo alla luce da sotto l’intonaco era Pier Paolo Pasolini. Anzi, Piero Paolo, come lo chiamavano qui a Versuta. Il rifugio durante i bombardamenti che stavano radendo al suolo la sua Casarsa della Delizia, regno dei Colussi come la madre Susanna, ma anche la tana, quella stanza in affitto in cui – già mesi prima della guerra – Piero Paolo veniva a scrivere. È qui che, mentre risuonavano le sirene che annunciavano le bombe, il poeta fondò, all’inizio del 1945, l’Academiuta di lenga furlana, che aveva il compito di tenere vivo il dialetto senza che nessuno se ne vergognasse più.
La chiesetta di Sant’Antonio Abate, il santo che accoglie i visitatori all’ingresso, affiancato da un insolito maiale, è un piccolo gioiello del XIII secolo. Per entrare, bisogna farsi dare le chiavi da una famiglia. E non è una cosa insolita. Anche per entrare in Santa Croce, a Casarsa, bisogna bussare alle porte di una signora classe 1930. L’altro giorno, in paese, ne hanno festeggiati 31 di ottantacinquenni. “Certo che me lo ricordo, Pier Paolo, e mi ricordo anche la mamma – confida la signora in dialetto stretto –. Com’era buona, aveva le sopracciglia a nido di rondine”.
Nico Naldini, cugino del poeta e suo biografo, ricorda che Susanna Colussi anche sotto i bombardamenti non usciva di casa se non truccata. “Ma non hanno mai rimarcato la differenza tra noi e loro – sottolinea l’anziana con una punta di orgoglio –. I miei fratelli andavano sempre a giocare sotto casa loro, perché Pier Paolo e Guido Alberto (il fratello di Pasolini, ndr) avevano il pallone e la bicicletta. Solo che ai miei fratelli gli si diceva: ‘Tenetevi a due dita di distanza da lui’. Che ci vuole fare, aveva quel difetto lì…”.
“Lo presi per un braccio e lo trascinai lontano dalle case; coprii di improperi lui e la sua religione (…). Mi feci ripetere le parole del prete; ero perduto. Lo accusai di avermi perduto”. Così si legge nella prima pagina di Amado mio e questo era il “difetto” di Pier Paolo: amare altri uomini. Ragazzi, spesso ragazzini, quando lui stesso era ancora un giovane uomo. Di più, era un insegnante: portava nelle scuole dei contadini i versi dell’Eneide, l’amore struggente tra Enea e Didone come struggente era il suo amore per quella terra, per quei ragazzi contadini.
Il 30 settembre 1949 Pasolini, che era un abile ballerino, partecipò alla locale sagra di Santa Sabina e convinse quattro ragazzi a seguirlo in un campo. Quel che accadde dopo è cronaca giudiziaria, ma segnò inesorabilmente la fine della sua stagione friulana, un immenso dolore e un profondo astio (ricucito molto più tardi). Qualcuno riferì al prete quanto aveva sentito dire e Pasolini, insieme con due dei quattro ragazzi, venne rinviato a giudizio. Al Pci e alla scuola in cui insegnava non parve vero di potersene liberare, ancora prima che iniziasse il processo. Il “diverso” venne espulso. Il pretore di San Vito condannò i tre per atti osceni in luogo pubblico e soltanto un giudice d’appello coraggioso, nel 1952, li fece assolvere: gli alberi – scrisse – rendono il luogo appartato e lontano dagli occhi indiscreti. Per questo non era un “luogo pubblico”, ma era troppo tardi: Pier Paolo e sua mamma Susanna (Guido era morto con i partigiani della Brigata Osoppo nel ’45) erano già fuggiti nel 1950, a Roma.
Sessantacinque anni sono passati da allora, quasi quaranta da quando il feretro del poeta ha rimesso piede in Santa Croce, pochi giorni dopo il funerale romano. Quella sera, e per tutta la notte seguente, i suoi “ragazzi” di Casarsa lo vegliarono senza lasciarlo mai solo. La memoria è un tessuto che va ricucito pian piano, altrimenti si strappa. E la memoria, oggi, prende il nome di Centro studi Pier Paolo Pasolini. In quella che fu la casa del poeta e della sua famiglia, casa Colussi, in una delle vie principali del paese, Angela Felice come un’abile sarta ricuce quel tessuto.
Piccola e minuta, questa grande studiosa, divenuta sei anni fa direttrice del Centro, ha una grinta da vendere. Le si illuminano gli occhi quando racconta del convegno organizzato a fine ottobre, pochi giorni prima dell’anniversario della morte di Pasolini. Una delle esemplari iniziative messe in piedi in questi anni per continuare a tenere vivo quel nome. Per amarlo e farlo amare anche da chi, nel paese e nel mondo intero, quel “diverso” non l’ha conosciuto o l’ha solo studiato svogliatamente a scuola. Bari, Catania, Cuba, New York. Ovunque, sul pianeta, si parli di Pasolini, il nome di Angela Felice salta fuori.
E quegli stessi occhi le si inumidiscono (ancora) quando lo va a trovare, nel piccolo cimitero alle porte di Casarsa. Due lapidi affiancate, nella terra, circondate dai sassi e protette da un arbusto. Susanna Colussi, Pier Paolo Pasolini: madre e figlio vicini, com’è stato fino all’ultimo giorno del poeta, il 2 novembre del 1975. Una tomba spartana, senza epigrafi, come l’avrebbe voluta lui. Eppure, anche in un giorno piovoso di ottobre, è proprio qui che ci si accorge di quanto quella “disperata vitalità” sia ancora, più che mai, presente. Oltre ai fiori freschi lasciati dai compaesani, sulla lapide del poeta compaiono molto spesso dei bigliettini. “A te che mi hai donato la poesia”, ha scritto lunedì scorso Paola. “Grazie per avermi cambiato la vita”, le parole di Benedetta. “Qualche tempo fa, durante l’allestimento di una mostra fotografica – racconta la dottoressa Felice – è arrivato un signore, un imprenditore savonese. Mi ha raccontato di aver sempre vissuto all’avventura, senza una meta, fino al giorno in cui, per un caso, si è imbattuto nella scrittura di Pier Paolo. Da allora, non avendo figli, ha fondato una comunità in Africa, dove fa crescere e studiare 200 bambini”. L’amore e lo studio ritornano sempre, quando si ha a che fare con Pasolini, come nell’istituto comprensorio finalmente dedicato al poeta, in cui “i ragazzi – racconta il sindaco, Lavinia Clarotto – stanno realizzando laboratori di fumetto e poesia per riappropriarsi della memoria”. Un giorno, da giovane insegnante, Pasolini diede un compito in classe: “Raccontate un fatto di cronaca cui avete assistito”.
E mentre tutti i ragazzi scrivevano, ce n’era uno che, con aria triste, fissava il nulla. “E tu, perché non scrivi?” gli chiese il poeta. “Perché a casa mia non abbiamo la radio”, gli rispose il ragazzo. “Bene, allora scrivi che non avete la radio e perché non l’avete”. La realtà, nella poesia, è più forte dell’immaginazione.