Corriere della Sera, 16 ottobre 2015
Bella intervista a Roberto Mancini allenatore dell’Inter. «Il calcio è sempre lo stesso, Guardiola ha la stessa filosofia che Viciani aveva dato alla Ternana negli anni Settanta»
Roberto Mancini, si aspettava di arrivare a Inter-Juve così in alto?
«Il bilancio è buono. Ora bisogna continuare così».
Dicono che giocate male.
«Dobbiamo migliorare, ovvio, come tutti. Ma in questa fase di costruzione conta soprattutto fare bene, cioè punti».
Ma che cosa significa giocare bene al calcio?
«Bella domanda. In generale, tutti sono felici se vincono, pochi amano perdere giocando bene. Alla maggior parte dei tifosi l’1-0 piace. E poi c’è altro».
Che cosa?
«Gli avversari. Penso al secondo tempo con la Samp: loro tutti dietro la linea della palla, noi con il 60% di possesso, baricentro alto, 9 tiri in porta. Un 1-0 può indurre la percezione che siamo poco offensivi, ma non è così. Poi è chiaro che segnare di più è necessario, magari con un altro modulo che sfrutti meglio gli esterni».
Non ha detto che il modulo non conta?
«Ho risposto a certe domande illogiche, tipiche italiane, per fortuna non di tutti. Quello che dico è che non si vince o perde per un modulo».
In Inghilterra com’è?
«Lì nessuno ne parla. Non giudico, constato una cultura differente. Ma con la Fiorentina, per esempio, non è stata questione di modulo. Eravamo sotto 0-2 senza che loro avessero tirato in porta... Succede. Ma per me quella resta una delle nostre migliori partite finora».
In Italia manca la cultura della sconfitta?
«Non c’è mai stata. Per noi una partita è questione di vita. E le cose stanno peggiorando. Invece nella vita ci sono cose più importanti del calcio».
Allora perché è tornato?
«Ah non lo so, me lo sto ancora chiedendo! Colpa dell’Inter e del suo fascino. Ancelotti, che è più intelligente di me, in Italia non torna più...».
Magari vincere in Italia dà più soddisfazione?
«La mia più grande gioia è stata vincere la Premier League da straniero, in un modo che meriterebbe un film come “Febbre a 90°” sull’Arsenal».
Il senso di Inter-Juve?
«Semplice: in Italia è la partita più importante di tutte, da sempre».
Barzagli ha detto che se perdono per loro è finita.
«Sicuramente sarebbe molto dura recuperare. Ma la stagione deve ancora assestarsi».
Quanto ci vorrà?
«Altre sette/otto partite: Napoli, Roma, la Juve, lo stesso Milan saranno tutte avanti con noi. E la Fiorentina può arrivare in fondo».
Inter-Juve si gioca anche fuori dal campo. L’onda di Calciopoli finirà mai?
«Finché ci sono battute ok, fa parte del folclore. Ma io vorrei tanto che quella storia venisse chiusa per sempre».
Confessi: che cosa racconta al telefono per convincere i giocatori a venire all’Inter?
«Tutti i tecnici chiamano i giocatori, parlano del progetto, li fanno sentire importanti. Se io ottengo qualcosa di più è grazie alle vittorie e alle esperienze fatte all’estero. Su Kondogbia, Perisic, Jovetic c’erano tanti club e ha pesato anche l’appeal dell’Inter. Quello conta più di me».
Tra le telefonate ce n’è stata una a Balotelli?
«Mi ha mandato lui un sms, ci siamo sentiti, ha scherzato dicendo che era pronto...».
Ma non è venuto all’Inter. Si sarebbe integrato?
«Chissà. Ma sono felice che sia tornato. Gli voglio bene».
Per Massimo Moratti questa è una squadra al 90% di Mancini. Fa già il manager all’inglese e non ce l’ha detto?
«Piano, che i direttori sportivi sono pericolosi... No, qui non c’è questa cultura. In Inghilterra non ho mai visto presidenti o dirigenti al campo di allenamento: il tecnico è l’unico responsabile su tutto».
Quali differenze ci sono tra Moratti e Thohir?
«Moratti era il presidente classico, stava con la squadra, parlava con me e i ragazzi. Thohir è lontano ma ci sentiamo tanto ed è ben rappresentato qui. Storie differenti».
Che cosa va e che cosa no dell’Inter finora?
«Funziona la fase difensiva. È da migliorare quella offensiva: ci servono più gol».
Le difficoltà di Kondogbia?
«Si deve ambientare. Il calcio italiano non è mai stato facile. Hanno faticato anche grandissimi come Platini o Zidane. E Van Basten lo volevano cedere alla mia Samp per Vialli. Io sono certo che Kondogbia diventerà un grande, anche se è più un Vieira che uno Yaya Touré. Di Yaya ce n’è uno solo».
Ljajic è un problema?
«Ha qualità tecniche straordinarie ma, come capita spesso a certi talenti slavi, fatica a metterci qualcosa in più. Dipenderà più da lui che da me».
Un caso controverso è Guarin, suo punto fermo, amato o fischiato senza vie di mezzo.
«A volte, è vero, commette errori incredibili, ma è un ottimo giocatore. E giudichiamolo con equilibrio: non può essere prima eroe e poi brocco».
Tornando in Italia che calcio ha ritrovato?
«Come sempre il più difficile di tutti tatticamente».
Infatti lei sostiene da sempre che i tecnici italiani sono i più bravi del mondo. Nessuno di quelli in serie A ha mai vinto coppe europee, però.
«Si è abbassata l’età media e ci sono meno campioni. Quando torneranno, anche i tecnici ricominceranno a vincere».
Quanto le pesa non avere ancora vinto in Europa?
«È strano. Penso a Ibrahimovic, un fenomeno senza Champions. Spero che per me arrivi un giorno».
Vede per sé una lunga carriera?
«No, non farò come il Trap. Questo è un lavoro stressante».
Che cosa le pesa di più?
«Mettere in panchina qualcuno. Io ho giocato, sento sulla pelle il dispiacere che provano loro. E purtroppo so che per me non cambierà mai».
L’allenatore è un uomo solo?
«Solissimo. Siamo in tanti solo quando vinciamo. Ma chi fa questo mestiere lo sa».
Quali maestri gliel’hanno insegnato?
«Boskov e Eriksson. Diversi per età, carattere e stile di gioco, entrambi mi hanno trasmesso molto».
Sono ancora attuali?
«Certo, il calcio non cambia. Come nella moda, una volta va la zampa di elefante, poi il pantalone stretto, poi torna la zampa. Si può giocare più veloce o più lento; si è difeso a 3 poi a 4 poi di nuovo a 3, ma le basi restano le stesse. Guardiola ha la stessa filosofia di Viciani alla Ternana anni 70. Non inventi nulla, casomai modifichi».
Della Nazionale che pensa?
«Conte ha fatto bene con una generazione priva di grandi campioni. La qualificazione è importante e non era scontata. Pensate all’Olanda...».
Si aspetta di ritrovarlo presto avversario in un club?
«Sicuro. Ma dove non so».
E lei si vede sulla panchina dell’Italia in futuro?
«Il lavoro giornaliero è più bello, ma se dovesse mai arrivare sarebbe un onore».
Che effetto le fa, da ex campione poco compreso in Nazionale, vedere che ora bastano due partite per arrivarci?
«In realtà anch’io ci ero arrivato in fretta. Poi però ho giocato poco, molto per colpa mia e un po’ perché c’era molta più concorrenza ad alto livello».
Che ne pensa dell’ipotesi di Del Piero c.t.?
«Non è ancora allenatore, mi pare... Io non penso che la gavetta serva a tutti i costi, però così è dura. Inzaghi insegna».
E quanto servono ex calciatori dirigenti al calcio di oggi?
«Molto. Ma devono essere persone rette e oneste. Le istituzioni ne hanno bisogno».
La stagione dell’Inter sarà positiva se...
«Se arriviamo nelle prime tre. Ma io spero sia positivissima facendo meglio».
È vero che se l’Inter non arriva in Champions c’è il rischio di un pesante ridimensionamento?
«Tocco legno, all’inglese... L’urgenza la sentiamo, sappiamo che per le nostre casse è fondamentale. Ma non è un problema solo dell’Inter».
Che differenza c’è fra la sua prima Inter e questa?
«Quella era già ricca di giocatori bravi che dovevano solo esprimere un grande potenziale. Questa è costruita da zero».
Vincere ora è la missione più difficile della carriera?
«Sì. Ma sono deciso a provarci».