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 2015  ottobre 16 Venerdì calendario

Intervista a Renata Scotto. «Da bambina, a Savona, mi affacciavo alla finestra e cantavo. Giù si formava subito un capannello di gente». «La Callas non era mai allegra»

Ha iniziato cantando per lo zio pescatore. «Ero una ragazzina – racconta il grande soprano Renata Scotto (81 anni) – vivevamo a Savona e mio zio mi portava in barca con lui per ascoltarmi mentre tirava su dei pesci enormi. È stato lui che mi aiutò finanziariamente a intraprendere gli studi e mi portò per la prima volta all’Opera a sentire “Il Rigoletto”: è stato il mio primo sponsor».
Una carriera lunga una vita, «ma quando mi presentai alla mia prima audizione a Milano ero molto piccola e il maestro, vedendomi, disse sprezzante: “Non insegno canto ai bambini” e mi voltò le spalle. Io tirai fuori le unghie: cominciai a cantare e lui fu costretto a girarsi e a guardarmi come un fenomeno. Avevo capito da subito che avrei fatto la cantante e tutti i momenti erano buoni per esibirmi. La finestra della mia camera fu il mio primo palcoscenico: mi affacciavo e cantavo... in strada si formava un capannello di spettatori».
Il papà vigile urbano, la madre sarta: «Due persone semplici, ma dotate di grande sensibilità musicale. Mi mandarono in convento a studiare: poche distrazioni e molto impegno, ma era più forte la voglia di cantare». Il debutto a 18 anni («Come Violetta nella “Traviata”: ruolo difficilissimo per una debuttante») e l’anno dopo si esibiva già alla Scala.
L’incontro fondamentale della sua vita lo fa, naturalmente, in teatro: Lorenzo Anselmi, suo marito da 55 anni, era violinista. «Io in palcoscenico, lui in buca d’orchestra: ogni tanto ci lanciavamo un’occhiata». Galeotto fu lo “Stabat Mater” di Dvořák: «Durante le prove cominciammo a parlare, a conoscerci. Ci fidanzammo e l’anno dopo ci sposammo».
Il sacrificio di Lorenzo
Una lunga vita, che continua insieme, e due figli: Laura (oggi 45 anni) e Filippo (42), che però non cantano, né suonano. «Laura si occupa di finanza e non ama troppo la musica: forse per quel po’ di gelosia che deve aver vissuto da piccola quando il mio lavoro mi allontanava da casa. Filippo fa il manager di cantanti, è rimasto nell’ambiente. D’altronde, mio marito ed io abbiamo deciso di diventare genitori dopo quasi dieci anni di matrimonio. E dopo la nascita dei bambini, lui ha sacrificato la sua carriera artistica per stare appresso alla mia. Per me è stato fondamentale avere un compagno musicista: con lui ho scelto il mio repertorio». Una presenza costante, quella del marito, che forse ha evitato gelosie per qualche corteggiatore. «Lorenzo geloso? Spero di no, mi sono sempre comportata bene. Ma certamente i miei amanti sulla scena li ho amati sul serio: quando ci si immedesima in un personaggio si diventa quel personaggio». Negli Anni 70, la decisione di trasferirsi in America: «Volevo allargare gli orizzonti che in Italia erano un po’ ristretti. Tuttora vivo 4 mesi a New York, 4 in Florida dove trascorro l’inverno e poi tra Savona, Milano, Roma dove tengo le mie masterclass. per cercare nuovi talenti. È un modo per accettare l’età che avanza con qualche acciacco di artrite: gli anni ci sono, ma non ci penso».
I fiori della Callas
I ricordi sono tanti. Per esempio quel bis dell’«Amami Alfredo», richiesto dal pubblico «ma che non era possibile, perché quello è un brano che arriva dopo una lunga tirata e non si può staccare dal resto». Oppure quando, nel ruolo di Elena nei «Vespri siciliani», fu fischiata da un gruppo di melomani che inneggiavano a Maria Callas, presente in sala: «Un profondo dolore: l’opera è molto difficile. La divina Callas, che ero la prima ad ammirare, applaudì e mi mandò fiori in camerino». E sulla Callas si sofferma la memoria: «Lei era già una star, io solo all’inizio, per me era un mito. Incidemmo un disco insieme: era una donna riservata, al di sopra di tutti, non la vedevo mai allegra, al massimo un sorriso che sembrava più una smorfia di malinconia. Forse era una donna sola». Tra i colleghi, il più antipatico? «Non ho avuto feeling con Mario Del Monaco. A Giuseppe Di Stefano una volta rifilai una sberla: durante un duetto de”L’elisir d’amore” di Donizetti, lui invece di cantare si spostò in fondo alla scena a mangiare una mela. Io guardai il direttore, chiedendogli con lo sguardo “che faccio, continuo da sola?”, continuai da sola. Ma nella scena seguente, Di Stefano torna alla ribalta e nel momento in cui il mio personaggio, Adina, doveva dargli un buffetto sulla guancia, gli allentai un sonoro schiaffo. Con Luciano Pavarotti alterne vicende: siamo cresciuti insieme. Lui aveva una voce straordinaria ed era anche molto ambizioso. Quando cantammo davanti al pubblico americano, si dette arie da “grande diva”: mi trattò come qualcuno che era lì per accompagnarlo. Gli tolsi il saluto per una decina d’anni, poi ci riconciliammo». La Scotto non ha però molto apprezzato le performance rock del grande tenore: «Non si può mischiare la musica classica con altre cose: non è serio, né elegante». Così come ha qualche riserva su Andrea Bocelli: «Nel suo repertorio leggero è bravo, ha raggiunto una popolarità che va bene per la massa. Non dovrebbe cimentarsi con l’opera lirica». Per non parlare poi dello stupro nel «Guglielmo Tell» di Michieletto: «Roba da baraccone, indecente».
La voglia di Carmen
Ammira molto Riccardo Muti «Se accetta di andare alla Scala, spero non lo faccia da direttore artistico, ma come direttore ospite: abbiamo bisogno di lui nel mondo e se si ferma in un posto ce lo giochiamo». Muti ricambia: «Renata è uno dei più grandi soprani: un esempio da seguire per i giovani». Ma nel vasto repertorio dove la Scotto ha navigato, un personaggio le manca: «Carmen: non era vocalmente adatta a me, anche se mi sarebbe piaciuto interpretarla in una chiave buia, zingaresca». Quello che ha amato di più, «la Lady Macbeth verdiana, ricca di sfumature». Le vaste platee le mancano? «No, perché non posso dare più quello che ho dato. Ora mi dedico a promuovere il Belcanto italiano nel mondo: è un modo per dare agli altri quello che ho avuto io».