Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  ottobre 15 Giovedì calendario

Euro forte, Bce preoccupata: l’ascesa della moneta unica europea nei confronti del dollaro rischia di avere un impatto negativo sull’economia del Vecchio continente, limitando le esportazioni e l’inflazione. Se la tendenza attuale si confermasse, potrebbe costringere Draghi ad adottare rapidamente il "Qe2", cioè l’allargamento dell’azione espansiva da parte dell’Eurotorre

C’è uno spettatore in più particolarmente interessato alle condizioni dell’economia Usa e ai riflessi che queste potranno avere sulla decisione sui tassi della Federal Reserve e sul dollaro. Ai piani alti dell’Eurotower infatti non lo ammetteranno mai, ma quell’euro che si avvantaggia delle disgrazie altrui e si rafforza sui mercati raggiungendo i massimi delle ultime sette settimane desta più di un timore ed è in grado di influire sulle future scelte di politica monetaria, anche se non ne è l’obiettivo primario.
Una valuta in avanzamento sul dollaro e in generale nei confronti delle altre monete del globo rappresenta infatti un irrigidimento involontario della politica monetaria e delle condizioni finanziarie dell’Eurozona. È preoccupante non solo perché un cambio più elevato incide sull’attività economica impattando negativamente sull’export, ma anche perché rendendo meno care le merci importate pone un ulteriore freno alla ripresa dell’inflazione, che poi è il vero target di Francoforte.
Non per niente il Financial condition index, un indicatore elaborato da Barclays Research che tiene conto dei principali elementi che incidono sull’attività nell’area dell’euro – fra cui le condizioni del credito e i tassi reali a breve e lungo termine – è in discesa da ormai diversi mesi: viaggia sui livelli di gennaio, prima cioè che Mario Draghi annunciasse al mondo il «Qe» in salsa europea, soprattutto a causa del rafforzamento dell’euro.
Se quindi la Fed dovesse ulteriormente rimandare la stretta come sembrano suggerire le deludenti vendite al dettaglio Usa di ieri (da seguire oggi, a maggior ragione, i dati sull’inflazione) la situazione si farebbe ancora più complicata per la Bce, che potrebbe essere costretta a sua volta a passare all’azione. Anche per questo motivo gli analisti ritengono che ogni notizia negativa da Oltreoceano, pesando sul dollaro, avvicini in realtà quello che ormai tutti chiamano il «Qe2», cioè l’allargamento dell’azione espansiva da parte dell’Eurotower che in parte gli il mercato sta già scontando.
Fra le mosse che il board Bce potrebbe adottare per riportare sui binari desiderati la politica monetaria – ovvero un’estensione temporale del piano da 60 miliardi al mese oltre il settembre 2016, un incremento nella misura e nella qualità degli asset oggetto di riacquisto e un ulteriore abbassamento del tasso sui depositi (al momento a -0,20%) – soltanto l’ultima sarebbe secondo Giuseppe Maraffino di Barclays Research davvero efficace nel contrastare l’avanzata dell’euro.
È però, quella della riduzione della remunerazione sulla deposit facility, anche l’opzione più complicata da mettere in atto da Draghi e soci perché avversata dalla Germania e da altri Paesi «core» come la Francia a causa dell’impatto negativo sulle banche che parcheggiano il denaro a breve termine presso l’Eurotower. Difficilmente ne sentiremo quindi parlare giovedì 22 ottobre, quando il Consiglio Bce si riunirà di nuovo a Francoforte. Più probabile invece che venga custodita a parte come vera e propria arma finale in caso di bisogno nel corso del prossimo anno. Gli investitori, in fondo, hanno già iniziato a pensarci da tempo.