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 2015  ottobre 15 Giovedì calendario

Prezzi freddi e domanda languente: per confermare una ripresa ancora fragile, la stella polare della nuova stagione negoziale deve essere uno stretto rapporto tra produttività e salari (in entrambi i sensi)

I prezzi – lo testimonia la revisione al ribasso dell’indice dei prezzi al consumo comunicata ieri dall’Istat – continuano a essere freddi. È una buona o una cattiva notizia? Dipende, dice l’economista, meritandosi l’antica battuta di Winston Churchill («Quando chiedo un parere a due economisti, ho due risposte diverse; a meno che uno dei due non sia Keynes, nel qual caso ne ho tre»). Prezzi freddi rinsanguano il potere d’acquisto dei salari ma sono anche indizio di una domanda che langue. E oggi c’è di più: i prezzi freddi mettono i piedi nel piatto dei rinnovi salariali e diventano parte cruciale di una stagione negoziale chiave per confermare una ripresa che è reale e fragile al tempo stesso.
La premessa da cui bisogna partire è che la lotta fra capitale e lavoro (se vogliamo usare quest’antiquata espressione) è oggi in Italia una “guerra fra poveri”. È vero che da questa guerra il lavoro sembra risultare vincente (la quota dei redditi da lavoro nel valore aggiunto è ai massimi storici) ma il vocabolo operativo è”quota”. Una fetta più grande di una torta più piccola non fa bene a nessuno, mentre i margini di profitto, umiliati dalla stagnazione (anche con i modesti tassi di crescita previsti per quest’anno e il prossimo, il Pil italiano del 2016 sarà ancora inferiore a quello di inizio secolo), non spingono certo a rinverdire gli investimenti. Per questo il «cambiar verso» – che comincia a registrare qualche successo sul fronte delle politiche istituzionali e del lavoro – deve coprire anche il terreno contenzioso delle relazioni industriali. Cominciando dalle scansioni dei contratti che oggi appaiono sfasate. Le imprese, sottomesse alle incertezze della domanda, devono cambiare i prezzi di vendita ogni giorno, ma la componente principale dei costi – il lavoro – rimane predeterminata per tre anni (all’estero i contratti si fanno ogni anno). Succede così, come è successo, che l’inflazione effettiva sia più bassa di quella prevista nell’ultima tornata contrattuale, appesantendo il costo del lavoro e inficiando la competitività.
Ma il problema principale è ancora un altro: è quello della produttività, che deve finalmente diventare – come dicono teoria e buon senso – la stella polare per tracciare la dinamica contrattuale.
Non solo e non tanto nel senso che i salari debbono seguire la produttività, ma anche e soprattutto nel senso inverso: un pronunciamento negoziale che metta la produttività al centro dei rinnovi non può che rinsaldare fiducia e restituire certezze. In un altro esempio del «sollevarsi tirando sulle stringhe delle scarpe», la centralità della produttività diventa fattore di aumento della produttività stessa.
Il perdurare della deflazione in Italia e in Europa richiede risposte di politica economica su almeno altri tre fronti.
Su quello monetario, dove – per ora a livello teorico – si comincia a discutere apertamente di idee finora tabù: espansione quantitativa “permanente” della moneta, finanziamento monetario della spesa pubblica...
Su quello della politica di bilancio, dove la ricerca spasmodica di spazi di stimolo all’interno delle complicate regole europee traduce in fondo l’inanità di quelle regole a guidare l’economia del Vecchio Continente lungo le vie tortuose di un ciclo anomalo.
E su quello delle politiche di riforma strutturale, dove l’intrico dei «lacci e lacciuoli» (a quarant’anni dalla denuncia di Guido Carli) continua a impaniare l’intrapresa. L’anno scorso, al Salone del mobile, Matteo Renzi dichiarò: «Contro la burocrazia serve una lotta violenta. Uso il termine “violento” perché non abbiamo alternativa». Parole da sottoscrivere, nella perdurante attesa che diventino realtà.