Il Messaggero, 15 ottobre 2015
Artisti, scrittori, filosofi, registi, fotografi, tutti coinvolti e mescolati in una sfavillante vita culturale e mondana: questo, e molto altro, era la Roma degli anni Sessanta, che ora Andrea Bettinetti racconta nel suo bel docu-film "Swinging Roma". «Un decennio aureo, dove Roma era una "spugna capace di accogliere idee e novità". Poi tutto si conclude nel ’68. Il prima della rivoluzione è quasi sempre meglio della rivoluzione»
Guardando Swinging Roma di Andrea Bettinetti (prodotto dalla Good days film di Michele Bongiorno), sull’arte e sulla cultura a Roma negli anni ’60, viene spesso da pensare: «Cosa mi sono perso!». In quel decennio frequentavo la scuola e sono riuscito appena a intravedere quel mondo, un attimo prima che sparisse. Il documentario si apre e si chiude su piazza del Popolo, culla di quell’avanguardia, forse la più rappresentativa piazza romana, una scenografia neoclassica che contiene sia il Rinascimento che il barocco, e che allo scrittore americano Jack Kerouac apparve «battuta dai venti e dalla luce come un mare».
TESTIMONI
Lì, ai tavolini del bar Rosati, dopo Sartre e la De Beavoir, sciamavano artisti, scrittori, registi, fotografi, da Fellini e Flaiano a Moravia, Elsa Morante e Parise e poi a Consagra e D’Orazio… Nel film (che sarà presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2015 nella sezione Riflessi martedì 20 alle 19 presso il MAXXI e arriverà in tv venerdì 23 ottobre alle 21.10 su Sky Arte HD) vediamo sfilare molti testimoni, tra cui Baruchello, Achille Mauri, Calvesi, Balestrini, Giosetta Fioroni, Sargentini, Bonito Oliva, Carolyn Christov-Bakargiev, La Capria, e Agnese Di Donato, all’epoca proprietaria della libreria Al Ferro di Cavallo, in via Ripetta, un polo magnetico della vita cultural-mondana, inventandosi perfino un premio letterario per la migliore opera sperimentale (che andò, tra l’altro, a Pizzuto, ma qui lei confessa che avrebbe preferito leggere Bassani…), e nei cui locali sono passati tra gli altri Ungaretti, Pound, Tzara, Berto, Penna, Sinisgalli, Purini, Brandi, Frassineti, Manganelli, Argan, Pagliarani, Afro, Rotella, Angeli, Mambor… E anzi al vicino liceo artistico i Pascali e Kounellis erano stati a scuola da Capogrossi, Afro e Scialoia. È stata una stagione irripetibile, a sua volta riflesso di un periodo eccezionale per il nostro paese: il boom economico. A Milano c’era l’industria manifatturiera, a Roma l’industria del cinema (quasi 300 film l’anno!) e la cultura. Ci si incontrava nei caffè, nelle gallerie (la Tartaruga di De Martis, oltre all’Attico di Sargentini)), e in seguito anche al Piper.
La prima cosa che balza agli occhi è l’estrema mescolanza fra gli artisti: letteratura, cinema, pittura, etc. erano linguaggi che dialogavano continuamente tra loro (e accadde a molti artisti visivi di realizzare dei film, come Schifano o la Fioroni). Una cosa che oggi non avviene neanche nei social network. Poi gli artisti romani furono scoperti dagli americani: nella capitale arrivò Leo Castelli, che mise subito Schifano sotto contratto, vennero ad abitare qui Capote e Vidal, la sera incontravi Duchamp in libreria, mentre Rauschenberg ammise di dovere tantissimo ai sacchi di Burri, che lo illuminarono nel 1952. A proposito dei quali occorre ricordare che quando vennero esposti alla Gnam da Palma Bucarelli ci fu perfino una interrogazione parlamentare del Pci (Terracini) che chiedeva quanto fosse costata al museo «quella vecchia, sporca e sdrucita tela da imballaggio».
Perché il Pci, che pure in una specie di spartizione ideale con la Dc, si doveva occupare della cultura, manifestò quasi sempre forte ostilità all’arte astratta, contraria al realismo. Nel film apprendiamo molte cose: accanto a un piano felicemente contiguo al gossip (gli artisti belli e dannati con le montagne di coca sui tavoli, o Pascali invitato a casa dei nobili che rubava le forchette, come ci svela Marina Ripa di Meana, etc.) c’è anche un piano critico, fatto di interpretazioni fondamentali per capire un capitolo di storia dell’arte (ad es. la Christov-Bakargiev osserva che a un certo punto gli artisti abbandonano il Pop e si avvicinano a una dimensione arcaica, mitico-rurale, specificamente italiana, ad un’Arte Povera, anche se allora non si chiamava ancora così: Pascali lavora con la Paglia, Kounellis con i cavalli vivi…).
SPUGNA
È stato un decennio aureo, dove Roma era una «spugna capace di accogliere idee e novità». Poi tutto si conclude nel ’68. Negli anni precedenti c’era stato un clima di eccitazione e di attesa: il prima della rivoluzione è quasi sempre meglio della rivoluzione. L’utopia estetica (Kounellis: «Volevamo uscire dal quadro!») si fa utopia politica, e diventa burocratica, e in parte dagli esiti torbidi. Bisogna però resistere alla nostalgia vintage del passato prossimo. Il paesaggio è radicalmente mutato. E oggi accanto all’impoverimento culturale e alla separazione tra i linguaggi c’è però anche una moltiplicazione delle chance offerte a ciascuno per esprimere la propria creatività. E se il ’68 segnò la fine del Nuovo Rinascimento dei Sixties però l’esigenza che premeva dietro quel movimento – contradditorio e pure vitalissimo – era profondamente sana: e cioè tradurre la bellezza dell’arte e della poesia in una intera civiltà, in uno stile di vita condiviso (non limitato a una ristretta élite), in un modo di essere e di vivere le relazioni.