Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  ottobre 15 Giovedì calendario

15 ottobre 1967: la sera che spezzò le ali alla Farfalla granata. Moriva 48 anni fa Gigi Meroni, travolto dall’auto di un giovane studente di 19 anni, Attilio Romero, tifoso sfegato del Torino e dello stesso Meroni. Lo stesso Romero che oltre trent’anni dopo diventerà presidente del Toro (e lo vedrà fallire)

Tutto accade il 15 ottobre 1967. Il Toro batte la Sampdoria 4-2 e già pensa al derby di 7 giorni dopo. L’allenatore dei granata è Edmondo Fabbri, tornato in un club dopo l’esperienza da c.t. con l’Italia. Un quadriennio segnato dal clamoroso k.o. con la Corea del Nord al Mondiale 1966. In Inghilterra c’è pure Mero- ni, gioca nella sfida persa 1-0 con l’Urss. Non c’è feeling con Fabbri. Si ritrovano a Torino. Quella maledetta domenica, finita la gara la squadra arriva in un hotel del centro. In ritiro. Come mai? Fabbri ha una sua abitudine, non si fida dei calciatori. Teme che passino la serata a strafogarsi di schifezze. Quindi, si cena insieme. Il rompete le righe arriva prima del previsto. Gigi Meroni e il compagno Fabrizio Poletti sono senza le chiavi di casa e cercano di rintracciare le rispettive mogli (in realtà Meroni conviveva con Cristiana, separata dopo un precedente matrimonio). Serve un telefono. E qui il destino dà il meglio di sé. In pochi minuti incrocia per sempre le vite della Farfalla con quella di Attilio Tilli Romero, giovane studente di 19 anni, figlio di un noto neuropsichiatra e soprattutto tifosissimo del Torino, con un idolo marchiato sulla pelle: sì, proprio il numero 7 dai capelli lunghi. «La mia esistenza ruotava intorno a 4 affetti: papà, mamma, Torino e Mentiti. E spesso gli ordini di importanza s’invertivano», sussurra Rumerò mentre guarda la strada che 48 anni prima ha stravolto tutti i giorni a seguire. «Andavo in trasferta bardato con un bandierone granata e un campanaccio. Poi è arrivato Meroni: geniale e spettacolare. Ero a San Siro quando s’inventò quel pallonetto...». Passo indietro: 12 marzo 1967. Il Torino spezza l’imbattibilità casalinga (durata oltre 3 anni) della Grande Inter targata Helenio Herrera. Vince 2-1 e il primo gol è una perla di Meroni: controllo in area, poi tiro a giro sotto l’incrocio di uno stupefatto Sarti. Torniamo a Romero. «Allo stadio avevo litigato con un contestatore: “Giù le mani da Meroni”. Poche ore dopo...».
LA TRAGEDIA Poche ore dopo, il giovane Tilli è fermo con la sua Fiat 124 coupé a un semaforo di Corso Re Umberto. Con lui c’è un amico, figlio di un magistrato. Sono quasi le 22. Duecento metri più avanti Meroni e Poletti escono dal bar: la telefonata è andata a vuoto, stanno per ritornare a casa. «“Gigi, vedrai che sono lì”. Gli ho detto proprio così e siamo balzati in strada». Fabrizio Poletti risponde dal Costarica, dove sta da anni senza nostalgie: «Qui ci sono sempre 25 gradi, la vita costa poco. In provincia di Ferrara ho i figli, ma fa troppo freddo. È stata Cristiana a farmi conoscere questo posto. Una storia tra noi? Non diciamo sciocchezze, era la donna del mio migliore amico... Ripeto, sto bene a parte gli sfottò presi dopo il k.o. dell’Italia al Mondiale brasiliano col Costarica...». E deve bruciare molto al generoso difensore che in azzurro giocò i supplementari della partita del secolo, il 4-3 alla Germania nella semifinale di Messico 1970. Ma è nulla rispetto al 15 ottobre 1967. «Tutto incredibile». Restano i ricordi. Incrociati: un lungo flashback. Due prospettive diverse, unite dall’ultimo fotogramma. Eccoli i racconti di Romero e Poletti. «Si illumina il verde. Parto con calma, parlo al mio amico. Sera buia, ma serena. Fa caldo, c’è poco traffico...». «Usciamo dal bar con Meroni: vediamo sulla nostra sinistra le macchine ferme. Uno scatto rapido e siamo quasi a metà carreggiata quando da destra iniziano a muoversi le auto. Ci fermiamo nel mezzo...». «...Supero una macchina, sfrutto la corsia doppia. Poi resto largo, sono vicino alla linea. Un momento, cosa sono quelle ombre in lontananza?». «... Niente, non possiamo attraversare. Non volgiamo mai lo sguardo a sinistra. Osservo Gigi: è un passo indietro rispetto a me...». «...Sì, sono due persone. Tranquillo, Tilli. C’è spazio, ci passo. Eccomi a pochi metri da loro. Nooooooo, uno si è spostato all’indietro...». «...All’improvviso l’inferno: qualcosa mi urta sulla gamba. Faccio un giro su me stesso, sento un tonfo e vedo Gigi volare in aria. Ricade dall’altra parte: è travolto. Sento i freni graffiare l’asfalto, un rumore sinistro di ossa, ma nessuno grida...». «...È un attimo: prima un leggero fruscio, poi un botto tremendo. Un uomo schizza in alto, lo vedo cadere, finire sotto una Lancia...». «...Zoppico, ma avanzo verso Gigi. È una maschera di sangue, non si muove. Gli ascolto il cuore: batte flebile. È ancora vivo. Poi mi portano via. Ci portano via...». «...Sono stordito, ho appena investito una persona: blocco la mia 124. Scendo, torno indietro. C’è un gruppetto sul luogo dell’incidente. Urlano: “È Meroni, è Meroni”. Oddio, Oddio. Ho messo sotto il mio idolo... Mi precipito a casa a chiamare papà: abito 100 metri più avanti».
I PROCESSI La Farfalla granata muore poco dopo. La città è incredula. La domenica seguente si gioca il derby in un clima surreale. Racconta Poletti: «Avevo un polpaccio gonfio, ma non potevo saltare quella sfida. C’erano 20mila tifosi ai funerali di Gigi. Vinciamo 4-0, Combin fa una tripletta. Il poker lo segna Alberto Carelli, indossa la 7. Dopo il gol prende il pallone e lo alza al cielo. E noi a piangere». Ricorda Romero: “Certo, volevo andare anche io a quel derby. Me lo hanno impedito. Dopo gli ultrà vennero da me: “Tilli non hai colpe”, dissero». In realtà i magistrati contestarono più di una colpa a Romero: al processo fu ritenuto responsabile dell’incidente al 70%: «Doveva prevedere il comportamento dei pedoni, specie in quelle circostanze anomale», sentenziò il giudice. Il restante 30% fu addebitato ai giocatori: attraversarono la strada in modo imprudente, lontano dalle strisce. La patente di Romero fù sospesa per 6 mesi e l’assicurazione pagò i danni alla famiglia. Ci fu anche un altro processo: il Torino chiese un risarcimento. E il tribunale per la prima volta aprì a questo principio giuridico. Ma fu una vittoria di Pirro: il Torino non riuscì a dimostrare di aver avuto un danno patrimoniale. A fine stagione, senza Meroni, la squadra vinse la Coppa Italia. Quindi non era stata penalizzata dalla morte del numero 7. «Stronzate», sbotta Poletti. «Gigi era un grandissimo, forte come George Best. Avrebbe fatto sfracelli: nel 1970 sarebbe stata una stella al pari di Pelé». Anche Romero è d’accordo: «È uno degli innumerevoli motivi per cui questa ferita non si rimarginerà mai. Ho ucciso il mio idolo. E come se un napoletano avesse ammazzato Maradona. Come ne sono uscito? Beh, a dire la verità non ne sono mai uscito. Hanno scritto che fu mio padre a farmi superare il trauma. Non è vero, devi trovare da solo la risposta. Il brutto è che non c’è: questa storia è talmente assurda da non sembrare vera. Per molti mesi l’ho vissuta come un automa. Poi poco alla volta il dolore ha bussato alla mia porta. Gli apro praticamente ogni giorno. Quando nel 2000 sono stato chiamato da Cimminelli a ricoprire il ruolo di presidente del Torino, ho pensato: “Ecco, posso fare qualcosa di buono”. E invece arriva il secondo dramma, sportivo. Nel 2005 la squadra fallisce. Certo, non avevo colpe dirette, non ero il proprietario che aveva promesso a tutta la città, me compreso, di risanare il bilancio. Ma ero ancora lì, sul luogo del delitto. Inquietante, vero?».