il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2015
Nel suo ultimo libro, “Ciao”, Walter Veltroni si mette a nudo immaginando l’incontro sempre sognato con suo padre (morto quando aveva un anno), che gli appare per salvarlo da uno dei momenti più difficili della sua vita. «Veltroni suole definirsi un uomo “interessato a completare le vite spezzate”. In questo libro ci riesce. Solo che stavolta la “vita spezzata” è la sua»
La cosa che più colpisce del nuovo libro di Walter Veltroni, che esce oggi per Rizzoli, è il desiderio ostinato di mettersi a nudo. Ciao è il racconto dell’incontro da sempre sognato tra l’autore e il padre Vittorio, perso quando aveva un anno. A leggere le 248 pagine ci si sente quasi in imbarazzo, perché spettatori probabilmente non autorizzati di un dialogo/monologo così intimo. A qualcuno ricorderà Fai bei sogni di Massimo Gramellini, ma i riferimenti più naturali sono Big Fish (peraltro citato) e L’uomo dei sogni. Nel libro compaiono anche molti scrittori. Per esempio Edoardo Galeano, che “misurava il tempo restante della sua vita in campionati mondiali di calcio” e “non bisogna farlo, mette paura”. E poi Paul Auster, che una volta ha scritto: “Pensai: mio padre non c’è più. Se non faccio in fretta, tutta la sua vita scomparirà con lui”. Veltroni incontra il padre in un Ferragosto romano: “Mi sono accorto che il bisogno di mio padre, il bisogno di conoscerlo e di raccontarlo, era diventato una necessità quando mamma se n’è andata (nel 1992, nda)”. Veltroni non pare avere paura delle critiche – e ne arriveranno – di eccessiva melensaggine, altrimenti non avrebbe messo in scena uno scenario così smaccatamente fiabesco: “La pioggia è dello stesso colore delle nuvole”, “un gatto si è buttato dal trentaquattresimo piano per inseguire una goccia di pioggia rosa”, “dal cielo sembra scendere un’alluvione di marshmallow”. Compare poi il padre, cappello tipo Borsalino e testa rivolta all’ingiù, e comincia un dialogo che dura poco. Troppo poco. Ma un tempo comunque sufficiente a riempire il libro, chiedersi se fosse lecito essere fascisti in buona fede e citare l’autobiografia di Mike Bongiorno (amico del padre).
Veltroni, oggi, di politica non vuol parlare (anche se “la politica vera è bellissima”). Preferisce raccontare i bambini, al cinema come in queste pagine. Del resto il bambino è lui: sempre lui. Quello che crede che il Parco dei Daini sia il Paradiso. Quello che, nel capitolo 16, si mette a nudo persino più del solito e chiede al padre tante cose impossibili (“Che mi mandassi a letto senza cena”, “Che ti venissero i capelli bianchi”, “Che mi tenessi per mano”).
Quello che, anche in un libro di ferite, cita Alda Merini e ribadisce: “Io invece amo la vita, tutta quella che ho vissuto”. Veltroni sfoglia l’album dei ricordi, disseminando passaggi autoironici che saranno bocconcini succulenti per chi mai gli perdonerà un percorso poco rosso e molto rosa (“Ho ascoltato i consigli di Padre Mariano”, “Al Brancaccio ascoltai rapito una conferenza di Herbert Marcuse, ma non capii nulla”, “Provai sinceramente a leggere Lenin, ma mi arenai presto”). Il fulcro resta però la smisurata vulnerabilità dell’autore, che sogna l’apparizione del padre – “un desiderio, un impulso, un’energia, un conforto, un rimpianto” – per salvarlo da uno dei momenti più difficili della sua vita. Forse il più difficile.
“Per la prima volta mi sembri fragile, mi sembra tu abbia bisogno di me. (…) Mi pare che tu sia incerto, come se la vita che hai sempre pensato di controllare ti stia sfuggendo di mano”. Così gli dice il padre. Veltroni suole definirsi – lo ripete anche qui – un uomo “interessato a completare le vite spezzate”. In questo libro ci riesce. Solo che stavolta la “vita spezzata” non è quella di Enrico Berlinguer o del pianista Luca Flores, ma la sua. E l’effetto, per chi lo ricorda vicepresidente del Consiglio e padre del Pd, è un po’ straniante.