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 2015  ottobre 15 Giovedì calendario

L’ennesima tangente romana. Se neppure la creazione, voluta da Renzi, dell’Autorità anticorruzione, e l’istituzione, niente affatto formale, dell’assessorato alla Legalità, con due rigorosi magistrati come Cantone e Sabella chiamati a guidarli, sono bastati a scoraggiare il mercato delle tangenti, vuol dire che la corruzione in Italia è diventata un male incurabile, inarrestabile, irriducibile

All’indomani di quello di Milano, che ha investito la Regione Lombardia, Fi e la Lega, si può leggere come una storia esemplare la vicenda dell’ultimo scandalo esploso a Roma attorno al primo appalto per il Giubileo – tre arresti, due imprenditori paganti e un funzionario comperato con duemila euro, una tangente da accattoni. Stavolta il sistema di contrasto ha funzionato, il presidente dell’Autorità anticorruzione Cantone aveva sentito puzza di bruciato, e l’assessore alla Legalità (oggi dimissionario) Sabella, fin da aprile, aveva denunciato. Corruttori e corrotto sono stati colti con le mani nel sacco, dieci banconote da 100 euro e venti da 50, di cui il funzionario invano ha cercato di liberarsi, come 23 anni fa ai tempi di Tangentopoli.
E come nella fiction «1992», trasmessa con successo da Sky qualche mese fa.
Ma anche per questo, purtroppo, si può leggere la stessa storia in modo opposto: se neppure la creazione, voluta da Renzi, dell’Autorità anticorruzione, e l’istituzione, niente affatto formale, dell’assessorato alla Legalità, con due rigorosi magistrati come Cantone e Sabella chiamati a guidarli, sono bastati a scoraggiare il mercato delle tangenti, vuol dire che la corruzione in Italia è diventata un male incurabile, inarrestabile, irriducibile, un meccanismo oliato e perfettamente funzionante, in grado di scontare imprevisti come quelli verificatisi nei giorni scorsi a Milano e Roma, e subito riprendersi, crescere, proliferare a qualsiasi livello. Tagli un ramo e subito ne spuntano altri due o tre, colpisci in provincia e immediatamente la mala pianta si ripresenta nelle metropoli, con un via vai incredibile di imprese che si fondono, si dividono, si trasformano, un formicaio di fratelli, sorelle, cugini, cognati, prestanome, carte che spuntano e carte che scompaiono, morti viventi e morti che parlano, o non parlano più perché messi a tacere. La cronaca degli ultimi cinque anni (ma si potrebbe dire dieci o venti, perché il corso degli eventi non s’è mai arrestato) è tragicamente indicativa in questo senso. Da dove cominciare? Dal Mose di Venezia o dai Suv del Lazio? Da Sesto San Giovanni o dalle mutande verdi di Torino? Da Napoli, Reggio Calabria o dalla Sicilia?
Tal che il processo per Mafia capitale che sta per cominciare al Palazzo di Giustizia di Roma, in questo clima, rischia di trasformarsi in un fatto emblematico, una descrizione del sistema che ha attecchito dappertutto in Italia, perché non c’è quasi più regione, grande città o piccolo paesino in cui gli appalti di qualsiasi dimensione non debbano sottostare al regime della tangente, del lavoro in affitto pagato a nero, dello sfruttamento illegale del pubblico denaro, versato dai cittadini con le tasse. Eppure c’è chi obietta: macché mafia, la mafia non si accontenta di quattro soldi, la mafia con il traffico intercontinentale della droga guadagnava miliardi e miliardi. Quella di cui parliamo, infatti, è una piccola mafia, che forse non merita neppure il nome in ditta o il paragone con la Cosa nostra della leggenda e della realtà, ma a modo suo ne ha mutuato i metodi, le regole, le intimidazioni, i legami di comparaggio e le eliminazioni anche fisiche degli avversari scomodi, fino a rendere la politica sottomessa e soggiogata, perché dove c’erano i partiti, i partiti che ai tempi di Tangentopoli si finanziavano anche con le tangenti, ora c’è un sottobosco fatto di ras, raccatta-voti e imprenditori locali, che badano solo ai propri interessi personali, e entrano e escono dalla vita pubblica come se partecipassero a un giro di roulette.
E senza nulla togliere alle buone intenzioni, di Renzi, di Cantone o di Sabella – e perfino di Papa Francesco, che si preoccupa dell’ombra degli scandali sul Giubileo -, colpisce che né il governo né le opposizioni si rendano conto delle dimensioni che ha assunto il fenomeno. In un Paese in cui – è duro ammetterlo – troppo spesso l’anomalia sembra sia diventata la regola, si è riusciti a cambiare la Costituzione, ma non si riesce a fermare la corruzione.