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 2015  ottobre 15 Giovedì calendario

Milano, Venezia, Roma. Le città di Rossini

I luoghi della propria vicenda umana Gioachino Rossini li ebbe a Pesaro, dove nacque (1792) e trascorse la prima infanzia; a Lugo (città del padre) e Bologna, dove crebbe, studiò e tornò più volte; a Venezia e Napoli, dove si affermò; a Parigi, dove morì (1868) venerato come un Dio.
Periodi più brevi li trascorse a Firenze, Madrid, Londra, Vienna. Milano gli fu cara perché vi ebbe spesso ottima accoglienza (salvo i fiaschi dell’ Aureliano in Palmira nel 1813 e del Turco in Italia del 1814) e perché il trionfo della Pietra del paragone alla Scala nel ’12 amplificò assai la sua notorietà, portandogli tra l’altro in dote l’esenzione, per meriti artistici, dal servizio militare.
Ma quali le città della sua vicenda artistica? Tre si sono già elencate. Venezia fu la fidanzata, il primo grande amore. Vi rappresentò buona parte dei titoli dei suoi «anni di galera», vi fece debuttare il suo primo capolavoro serio, Tancredi e il primo buffo, L’italiana in Algeri, entrambi nel 1813, quand’era solo 21enne. Napoli fu la prima moglie. Stipulò infatti con il San Carlo, allora il teatro d’opera italiano più prestigioso, il contratto principale della sua vita, che onorò destinandovi ben nove melodrammi che formano il cuore del suo catalogo. Parigi fu la seconda moglie. Direttore del Théâtre des Italiens, presentò all’Opéra di Parigi infatti i suoi ultimi capolavori. La quarta è indubitabilmente Roma, che era stata la ragazza della «prima volta», per diventarne poi l’amante. Il titolo di ragazza della prima volta, la Città eterna se l’era guadagnato nel 1814 ospitando al Teatro Valle il debutto del primissimo lavoro teatrale del pesarese, quel Demetrio e Polibio che il precoce giovinetto aveva probabilmente composto già nel 1806, quando era solo 14enne. Amante lo divenne invece al tempo dell’incarico a Napoli. L’oneroso impegno con il San Carlo costringeva Rossini a varare due titoli nuovi all’anno ma gli permetteva qualche scappatella.
Poteva cioè scrivere nuovi titoli anche per altri teatri e assentarsi dalla città di Murat (l’altro Gioachino della vita di Rossini) per il tempo necessario al loro allestimento. Ed è così che tra il ’15 e il ’17 il massimo operista italiano destinò ai teatri romani quattro titoli.
Il primo e l’ultimo sono l’opera semiseria Torvaldo e Dorliska (Teatro Valle, 1815) e l’opera seria Adelaide di Borgogna (Teatro Argentina, 1817): certamente due pagine minori, specie la seconda. Ma i due compresi entro tale «cornice» sono capolavori assoluti, il meglio, insieme con L’italiana in Algeri veneziana, del versante buffo del catalogo rossiniano.
L’uno è Il barbiere di Siviglia, la cui «prima» del 20 febbraio 1816 passa agli annali come uno dei fiaschi più colossali della storia dell’opera. E dei più misteriosi, se è inverosimile che ne fosse causa la fronda dei sostenitori di Paisiello, autore in passato di un titolo sullo stesso soggetto di Beaumarchais (fatto sta che già a partire dalla recita successiva l’opera ebbe solo trionfi). L’altro è Cenerentola (Valle, 1817), opera buffa anch’essa, ma tanto più geniale quanto più diversa, nei toni e nello spirito, dal precedente capolavoro. Librettisti ne furono i romani Cesare Sterbini e Jacopo Ferretti, drammaturghi cresciuti in un ambiente che la lungimiranza di papa Pio VII e del segretario di Stato card. Consalvi aveva reso fervido sul fronte culturale, e specificamente su quello teatrale.
E se anche la semiseria Matilde di Shabran (Argentina, 1821) non fu accolta come Rossini sperava, questi manifestò sempre nelle sue lettere un affetto verso la Città eterna per aver ospitato quei prodigi buffi e aver sempre accolto entusiasticamente titoli nati altrove, come L’italiana, Tancredi, L’inganno felice e altri, ma prontamente riproposti al pubblico romano: quello stesso entusiasmo per cui forse non è un caso se è proprio a Roma che nel 1950 è letteralmente «rinata», direttore Gianandrea Gavazzeni, interprete principale Maria Callas, un’opera di vaglia come Il turco in Italia che il fiasco milanese del 1814 aveva relegato al dimenticatoio.