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 2015  ottobre 15 Giovedì calendario

In Liguria, dopo i disastri degli ultimi anni, non è stato fatto niente. Prima puntata di un’inchiesta

«Avete due ore di tempo per lasciare le vostre case». Alessandro Costanzo pensò che sembrava di essere in uno di quei film sulle catastrofi. Suo padre si affacciò alla finestra che dava sulla via Aurelia e vide la strada sbarrata, le luci arancioni dei camion dei vigili urbani, la gente che urlava sotto la pioggia. «Uscite, di corsa».
Quella del 18 gennaio 2014 era una notte da lupi. Il temporale, il vento, la mareggiata che in basso scuoteva la costa. Poche ore prima Elisa Escher, la sua vicina, aveva chiamato il geometra: «Ho sentito un botto, dev’essere crollata una grotta». Adesso erano tutti a caricare vestiti, comodini, quel che potevano portare via su furgoni e carretti. All’alba venne giù tutto. I cinque palazzi costruiti all’inizio dell’Ottocento nell’antico borgo di Capolungo che segnava il confine tra Genova e Bogliasco rimasero appesi alla strada, quasi un miracolo. La collina non c’era più, franata dopo il cedimento del suo piede di sostegno. «Abbiamo dato il nostro contributo all’espansione del continente», rise amaro il padre di Alessandro. Erano caduti in mare 7.000 metri cubi di roccia, uno squarcio largo novanta metri sulla tela di uno dei più bei paesaggi della costa italiana.
Non è cambiato niente. Dall’Aurelia affollata di turisti in escursione è ben visibile la colata sulla quale ha avuto il tempo di crescere qualche pianta selvatica. Il treno che viaggia verso le Cinque Terre e sbuca dalla galleria appena sopra la costa, una quarantina di metri sotto quei palazzi, ci passa accanto. Le comitive sui battelli commerciali diretti a Portofino chiedono spesso al comandante di avvicinarsi per fotografare quell’obbrobrio che spezza l’idillio di ville, giardini fioriti e spiagge, appena dopo Nervi e la Sant’Ilario cara a Beppe Grillo. «Benvenuti in Liguria», dice il comandante del Consorzio Viamare a un gruppo di turisti tedeschi. E sottovoce aggiunge: «Un po’ mi vergogno».
Alfonso Bellini, il geologo che è un archivio vivente del dissesto di questa regione, indica uno scoglio che affiora da fango e terra. La forma della roccia sembra un mazzo di carte scompigliato. «Pietre dure e friabili si alternano, con le onde che fanno abrasione selettiva, distruggendo le parti più tenere e creando voragini all’interno della collina». Questa è la natura. Al resto ci pensano gli uomini, perché dietro ogni frana c’è quasi sempre un matto, cioè noi. I primi a rendersi conto della fragilità di quella riviera furono i dirigenti delle Ferrovie dello Stato. Nel 1965 crollarono i terrazzamenti abbandonati appena sotto le rotaie. Il versante a Ponente fu consolidato con cemento a presa rapida e maglie di acciaio. A Levante intervenne il Comune di Genova, preoccupato per la sorte della villa-museo Luxoro. Una barriera di massi marmorei orrenda a vedersi ma efficace.
In mezzo c’era la baia di Capolungo. Appartiene al Demanio marittimo, una versione eterea dello Stato. A ogni tonfo nella collina, senza sapere a chi rivolgersi, gli inquilini delle cinque palazzine scrivono lettere a ogni possibile ente locale. Una volta nel 2006, un’altra nel 2008.
Zero risposte. Neppure quando nell’estate del 2010 la Capitaneria di porto proibisce la navigazione e il bagno sottocosta. Il Demanio dice che l’onere di eventuali interventi è della Regione, che a sua volta afferma di avere trasferito la gestione operativa al Comune, il quale sostiene invece di avere solo la responsabilità amministrativa e non quella delle opere di prevenzione, che spetta al Demanio. Cinque diverse leggi regionali sembrano dire tutto e il contrario di tutto, in un palleggio di competenze che per paradosso si traduce in vuoto legislativo. Nessuno fa niente. Fino al crollo, e oltre.
Genova è una città dove la sede della Protezione civile regionale sorge su una zona alluvionale, simbolo perfetto di una precarietà dal filo sempre più sottile, come dimostrano le quattro esondazioni dei torrenti e del temuto Bisagno in cinque anni e il temporale di metà settembre, quando il fiume è rimasto negli argini per soli 34 centimetri. La Riviera «che riproduce gli aspetti peggiori della concentrazioni urbane», come scriveva Antonio Cederna, è la pecora nera italiana per la copertura del territorio entro trecento metri dalla costa con il suo quaranta per cento. Le recenti tragedie della Liguria hanno rivelato uno dei mali endemici della nostra presunta lotta al dissesto idrogeologico. Non esiste un sistema di monitoraggio della spesa, non esiste un sistema omogeneo di dati. In compenso c’è una straordinaria sovrapposizione di competenze, con una parcellizzazione che ancora rende difficile il trasferimento delle risorse stanziate dopo l’alluvione dell’ottobre 2014.
La ribellione dei rivi tombati guidati dal Bisagno è la grande paura. Ma le frane costituiscono uno stillicidio quotidiano, con un inventario arrivato nel 2015 a quota 12.267, un terzo delle quali solo nella grande Genova, area metropolitana di ottocentomila abitanti dove secondo l’Istituto superiore per la Ricerca e la Protezione ambientale 150 mila persone rischiano la pelle a causa degli smottamenti del terreno. Davanti a questi numeri servirebbe una politica unica di gestione del territorio, una sola voce. Invece, ognuno per sé. E così si torna a Capolungo, alla baia di Liggia, al palleggio delle responsabilità, sfociato in un contenzioso civile tra enti pubblici e privati cittadini. «Ci sarebbe almeno da curare il danno e prevenire il suo aggravamento», dice Costanzo. «Ogni amministrazione dice che tocca all’altra. Quasi due anni senza alcun intervento. Una frana figlia di nessuno».
Tutto fermo. Si muove solo la frana, poco per fortuna, non distante dai binari della ferrovia. I residenti delle cinque palazzine dormono ancora fuori casa. Anche il tentativo di autogestione mirato al rientro si è scontrato con la burocrazia. Un progetto privato di risanamento da trecentomila euro si è infranto su due conferenze di servizi, un ufficio paesaggistico e la Soprintendenza. Le famiglie sgomberate si sono unite chiedendo all’Università di Genova di monitorare il terreno. Finora hanno sborsato 150 mila euro. Piccolo dettaglio, non sanno a chi inviare i dati. Ma non può piovere per sempre. Un accordo tra gli enti locali ha finalmente consentito l’avvio di una grande opera. Dopo lunga discussione, con parere favorevole di tutti gli interessati, è stato messo un semaforo sull’Aurelia per consentire ai passanti che camminano sul lato pericolante di cambiare marciapiede.
(1 – continua)