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 2015  ottobre 14 Mercoledì calendario

Contro-riforma del Titolo V. Uno dei meriti maggiori del ddl Boschi è quello d’aver finalmente raddrizzato l’«albero storto» del federalismo all’italiana, eliminando l’elenco delle «materie concorrenti» tra Stato e Regioni e recuperando allo Stato la competenza esclusiva in materia di economia e sviluppo. «Una ricentralizzazione che tuttavia non nega il principio della devoluzione, ma lo declina in modo diverso dal passato»

Messa in ombra dal superamento del bicameralismo perfetto e dalla questione più politica dell’elettività o meno del nuovo Senato, la riscrittura del Titolo V della Costituzione è in realtà la parte del Ddl Boschi che forse avrà maggior impatto sulla vita delle imprese e dei cittadini, e sicuramente lo avrà sull’economia del Paese. Più che una riforma si tratta in realtà di una contro-riforma, dal momento che raddrizza «l’alberto storto» (l’espressione fu usata allora Giulio Tremonti) del federalismo all’italiana. Quello, per intenderci, varato in fretta e furia dal centrosinistra nel 2001 per tentare di strappare la “bandiera” alla Lega Nord in crescita. Tentativo per altro non riuscito, dal momento che il candidato premier Francesco Rutelli fu sconfitto da Silvio Berlusconi.
L’albero è stato “raddrizzato”, anche se non del tutto dal momento che restano zone oscure, in due modi: da una parte è stato eliminato l’elenco delle «materie concorrenti» tra Stato e Regioni, e solo questo fatto dovrebbe di per sé ridurre fortemente il contenzioso tra Stato e Regioni di fronte alla Corte costituzionale. Oltre ad appesantire la Corte di un ruolo improprio, il contenzioso Stato-Regioni ha contribuito in questi anni a rendere incerte regole e tempi. E la certezza delle regole e dei tempi è una precondizione indispensabile per effettuare scelte economiche. Dall’altra parte sono state riportate in capo allo Stato come competenze esclusive una ventina di materie per l’economia e lo sviluppo territoriale del Paese: dalle «infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza» alla «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia» fino all’ordinamento delle professioni e della comunicazione, all’ambiente, al commercio estero, alla tutela e valorizzazione dei beni culturali. Una risistemazione da cui potrà trarre vantaggio tutta l’economia, dal momento che sono state riportate alla competenza statale anche temi trasversali: ad esempio «le politiche attive del lavoro», oltre alla «tutela e sicurezza del lavoro», la cui declinazione federalista in questi anni ha costretto spesso le imprese più grandi, presenti in più Regioni, a districarsi fra decine di regole territoriali diverse per i contratti di formazione, gli apprendistati e le altre forme di inserimento professionale.
Una ricentralizzazione, dunque, accentuata anche dalla cosiddetta clausola di supremazia dello Stato: «Su proposta del governo la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richiede la tutela dell’unità giuridica e dell’unità economica della Repubblica o lo rende necessario la realizzazione di programmi o di riforme economiche-sociali di interesse nazionale». Una ricentralizzazione che tuttavia non nega il principio della devoluzione, ma lo declina in modo diverso dal passato: con il rafforzamento del federalismo differenziato già contenuto nell’articolo 116 della Costituzione, infatti, le Regioni più virtuose dal punto di vista dei conti pubblici potranno chiedere e ottenere più poteri (politiche sociali, politiche attive del lavoro, formazione professionale, ambiente). Da una parte lo Stato interviene dove c’è inefficienza, dall’altra lascia spazio dove c’è efficienza e i servizi funzionano.