14 ottobre 2015
I commenti all’approvazione della legge di riforma del Senato
Stefano Folli su Repubblica
PER uno scherzo del destino, una giornata importante nella storia costituzionale d’Italia è stata inquinata da una nuova inchiesta giudiziaria sulle malefatte dei politici. È accaduto che il Senato ha votato la propria auto-soppressione, o meglio la trasformazione in organo di collegamento fra lo Stato centrale e le autonomie locali, archiviando il bicameralismo paritario. Lo ha fatto con una significativa maggioranza assoluta. Maggioranza che ha reso poco comprensibile l’abbandono dell’aula decisa da una parte dell’opposizione. Nelle stesse ore la Lombardia era scossa dall’arresto del vice-presidente della giunta per l’ennesimo scandalo legato alla sanità. Non potrebbe esserci congiuntura più sfortunata. Da un lato, una riforma ambiziosa e a lungo attesa, come hanno ricordato i suoi padri, a cominciare dal presidente emerito Giorgio Napolitano. Una riforma che rafforza l’esecutivo e si pone l’obiettivo, sia pure in forme non del tutto chiare, di rendere coerenti a Roma la voce di regioni e comuni. Dall’altro, nuovi arresti nella regione più grande, anello finale di una lunga catena che negli ultimi anni ha screditato l’istituto regionale al nord, al centro e al sud. Senza dimenticare l’indagine della procura di Roma su Mafia Capitale, che ha contribuito in misura determinante ad avviare la valanga che infine ha travolto il sindaco Marino. Ne deriva che si approfondisce una frattura pericolosa. Al centro il governo si consolida, Renzi ottiene un successo rilevante, di immagine e di sostanza, e prende lo slancio per affrontare nelle prossime settimane i nodi della legge di stabilità. Il presidente del Consiglio può rivendicare il rinnovamento istituzionale, quale che sia il giudizio complessivo nel merito della riforma. E quei 179 voti ottenuti ieri testimoniano della ritrovata unità del Pd, nella scia di un accordo che ha reso aggiuntivi e non decisivi i voti del gruppo di Verdini. Al tempo stesso questo sforzo riformatore non si trasmette alle realtà territoriali in cui si articola il paese. Anzi, il nuovo Senato sarà composto, come è noto, proprio dai rappresentanti di quelle regioni e comuni che periodicamente vengono sconvolti dalle incursioni della magistratura. E che sono, è bene ricordarlo, agli ultimi posti nella classifica della credibilità presso l’opinione pubblica, tanto da apparire come incubatrici permanenti del sentimento anti-politico. Non a caso le persone interpellate dai sondaggisti si dicono di solito ben contente del rinnovamento in atto, ma subito dopo si dichiarano favorevoli all’abolizione tout court del Senato, anziché a questa complicata mutazione in camera delle autonomie. La questione non è di poco conto perché tocca la cronaca quotidiana e si proietta nei prossimi passaggi politici. Stretto fra le valutazioni ottimistiche sulla storica riforma della Costituzione e le notizie inquietanti che rimbalzano fra Roma e Milano, il cittadino è disorientato. Esecutivo e Parlamento descrivono un’Italia che non si rispecchia – almeno non sempre – nel governo delle città e delle regioni. Sul piano morale e pratico l’assenza di una classe dirigente locale ben radicata e selezionata si fa sentire ogni giorno di più e accresce le incognite sul voto amministrativo della prossima primavera. Del resto, i termini del l’equazione sono chiari. In attesa del referendum confermativo che si terrà fra circa un anno, dopo l’ultima duplice lettura della legge costituzionale, non basta rivendicare la riforma per ottenere un automatico consenso di opinione. Soprattutto perché gli effetti delle novità sono tutti di là da venire. Viceversa nel voto amministrativo di primavera a Roma, Milano e Napoli peseranno altri fattori: gli scandali locali, il discredito, le inchieste a macchia d’olio. Il dopo-Marino non è vicenda destinata a restare chiusa nel perimetro della capitale. Le sue conseguenze sul piano politico tendono già oggi a dilatarsi su scala nazionale. E se Renzi è più forte a Palazzo Chigi, rischia invece di mostrarsi più debole in periferia. Non aiutato da un Pd in affanno e peraltro spesso sacrificato al “partito del premier”.
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Francesco Verderami su Repubblica
Per quanto le Amministrative non rappresentino un test politico, in quel voto si riverseranno anche gli umori di un Paese che è solito cambiar verso rapidamente nei riguardi di ogni premier.
Perciò non è un caso se il referendum costituzionale si terrà pochi mesi dopo le elezioni comunali, perché se in primavera il responso delle urne a Roma, Milano e Napoli fosse avverso al Pd, in autunno la consultazione popolare sulla Carta si trasformerebbe per Renzi in un paracadute, in un’occasione di rivincita e di rinnovata legittimazione al cospetto degli italiani. È vero, la sfida decisiva verrà alle Politiche, lì si vedrà se il leader democratico avrà saputo intercettare gli italiani. Ma il passaggio del referendum sarà dirimente, perché servirà a formalizzare i confini della nuova Yalta o a decretarne l’immediato fallimento.
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Ugo De Siervo sulla Stampa
C’è da augurarsi che dopo i festeggiamenti per il passaggio in Senato della riforma costituzionale e per la vittoria sostanziale di Renzi e Boschi sui vari e confusi oppositori, qualche responsabile politico rilegga finalmente con adeguato spirito critico quanto è stato infine approvato: il testo appare davvero troppo criticabile in numerosi punti perché possa pensarsi che la nostra Costituzione potrebbe funzionare meglio con la sua definitiva approvazione. È vero che poi dovrebbe esservi su di esso il referendum popolare, ma questo potrà solo o approvare o respingere tutto il testo della riforma, mentre essa appare necessitare correzioni e miglioramenti.
In tutta la vicenda si sono sommati due fattori molto negativi.
Nel governo una qualche improvvisazione progettuale ed una notevole inadeguatezza tecnica; nelle variegate opposizioni l’ossessiva volontà di contrapporsi al premier, caricando le proposte in discussione di improprie volontà eversive dell’assetto democratico e confondendo la legislazione elettorale con quella costituzionale. Nei mesi trascorsi ho già avuto occasione di motivare le mie critiche a vari e importanti punti della riforma: basti qui ricordare le debolissime ed eterogenee funzioni del nuovo Senato, la pretesa che un organo rappresentativo del genere possa funzionare gratuitamente, il confuso e incompleto riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, il fortissimo aumento dei poteri dello Stato centrale, la sottrazione alla riforma delle Regioni speciali.
Ma nell’ultima versione, magari al fine di ridurre così le opposizioni di coloro che pensano di poter bilanciare la forza del governo con organi e procedure di garanzia e di controllo, ci si è nuovamente inoltrati nel campo assai delicato degli altri organi costituzionali, in tal modo però dimostrando la modesta consapevolezza della necessaria sistematicità che occorre quando si tocca l’insieme dell’ordinamento costituzionale. Mi riferisco in particolare al mantenimento della previsione che il Presidente della Repubblica possa essere nominato solo ove un candidato consegua, anche dopo innumerevoli votazioni, la speciale maggioranza dei tre quinti dei voti e alla previsione che il Senato debba nominare due dei giudici della Consulta, lasciando alla Camera la nomina degli altri tre.
Ma far dipendere la nomina del Presidente della Repubblica dal necessario consenso di almeno parte delle opposizioni significa, nella nostra realtà politica, rischiare davvero di non avere per anni proprio il massimo organo politico di garanzia o di averlo infine con un profilo debolissimo. Sulla base di una norma analoga è da decenni che il nostro Parlamento ritarda gravemente a nominare molti giudici costituzionali di sua competenza e addirittura anche adesso l’attuale Parlamento non riesce a nominarne ben tre, così mettendo in seria difficoltà di funzionamento la Corte costituzionale. Ripetere l’esperienza con il Presidente della Repubblica appare davvero rischioso.
Quanto al potere di nominare due giudici costituzionali, c’è anzitutto da ricordare che in tal modo si rischia di qualificare i giudici costituzionali come rappresentativi dell’uno o dell’altro organo legislativo e non del complessivo assetto rappresentativo. Ma poi occorrerebbe anche essere consapevoli che in tal modo si rischia di affidare la nomina di questi giudici alla maggioranza politica presente in Senato, con quindi una conseguente pericolosa politicizzazione della Corte stessa. Solo recenti ed opportune analisi giornalistiche sembrano concludere che nel futuro Senato sarà possibile e probabile la presenza di forti maggioranze, originate dal basso numero nelle varie Regioni dei senatori da nominare e dalla normale omogeneità delle maggioranze dominanti nel maggior numero di Regioni.
Sarebbe quindi assai opportuno analizzare con lucidità quanto si è progressivamente stratificato in questo tentativo di riforma costituzionale.
Marcello Sorgi sulla Stampa
Ci sono alcune ragioni per cui, al di là dei numeri, superiori alle attese, la giornata di ieri può essere definita storica, non solo importante. È la prima volta che la Costituzione viene modificata sul serio: niente di paragonabile, per intendersi, a ciò che accadde nel 2001, quando un centrosinistra esausto, nel vano tentativo di agganciare la Lega già in parola con Berlusconi, varò con soli 4 voti di maggioranza la frettolosa riforma del Titolo V che quella attuale, per fortuna, correggerà, dopo quattordici anni di conflitto permanente alla Corte costituzionale tra Regioni e Stato. E neppure, sia detto per inciso, alla finta riforma del centrodestra del 2006 - smentita dal voto popolare del referendum -, che introduceva solo a parole il taglio del numero dei parlamentari rinviandolo in realtà di due legislature.
No, stavolta si cambia per davvero e il bicameralismo perfetto, croce e delizia di 67 anni di vita politica e parlamentare va in pensione, sostituito da un, chiamiamolo così, monocameralismo imperfetto, che grazie anche alla legge elettorale maggioritaria da poco approvata sposta consistentemente il potere dal Parlamento centro di tutto, voluto dai Padri costituenti, al governo, anzi ai governi scelti direttamente dagli elettori. Diciamo la verità, non c’è alcun motivo per preoccuparsi che da questo nuovo sistema, che somiglia a quello in vigore in molti paesi europei, possa sortire un regime, come appunto si temeva settant’anni fa, all’uscita dal fascismo; oggi il problema è rimettere in condizioni di decidere una democrazia che si è autocondannata al potere di veto. Il fatto che la riforma abbia tra i suoi padri, oltre a Renzi, che giustamente sottolinea il risultato, alla giovane e testarda ministra Boschi, battutasi tenacemente nelle Camere per ottenerlo, anche un padre della Patria come il Presidente emerito della Repubblica Napolitano, è la dimostrazione che non c’è stata alcuna forzatura, e i sei, non solo i quattro passaggi parlamentari, che saranno necessari per approvarla compiutamente, sono un’ulteriore prova di questo.
Infine c’è chi dice che per ottenere l’approvazione definitiva della riforma Renzi si convincerà o sarà costretto a modificare l’Italicum nel punto che assegna il premio di maggioranza alla lista, cioè al partito, vincente, restaurando il premio alla coalizione. Può darsi, la politica è l’arte del possibile. Ma è inutile nascondersi che sarebbe un passo indietro: la governabilità, introdotta dalla riforma e corroborata dalla cancellazione del bicameralismo perfetto, verrebbe di nuovo sopraffatta dalle risse e dalle divisioni di cui i governi di centrodestra e centrosinistra hanno dato prova negli ultimi vent’anni.
(Anche Il Fatto del Giorno è dedicato all’approvazione della legge di riforma del Senato)