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 2015  ottobre 13 Martedì calendario

Dalla nomina di De Gennaro alla votazione su Azzollini fino al destino di Marino, ogni volta che Orfini proclama qualcosa, ecco che poco dopo Renzi dice o fa l’esatto contrario: lo strano rapporto tra il presidente e il segretario del Pd ricorda tanto quello tra Molotov e Stalin, che quando si doveva sfogare prendeva a pedate il suo ministro, e quello incassava senza batter ciglio

Raccontano gli annali che Vieceslav Michailovic Skriabin detto Molotov, cioè Martello, non fosse proprio un fulmine di guerra. Eppure fu praticamente l’unico dei bolscevichi che riuscì a sopravvivere a tutte le purghe di Stalin. Il perché lo spiegò quella serpe di Kruscev nel suo Rapporto sui crimini del Piccolo Padre al XX Congresso del Pcus: il sedicente Martello era più bravo a farsi pestare che a pestare, tant’è che al Cremlino lo chiamavano tutti Culo di Piombo. Quando Stalin era nervoso, lo convocava in ufficio e lo prendeva a calci nel sedere. Era il suo modo di sfogarsi, per scaricare la tensione. E Molotov niente, mai una piega: anzi ringraziava se, oltre ai calci, non gli arrivava pure qualche sputo in faccia. Fu così che lo “stakanovista del fondoschiena”, come lo ribattezzò Diego Gabutti, poté morire rara avis nel suo letto nel 1986, due anni dopo la soddisfazione di venire riammesso nel Pcus da Cernenko. Altri tempi, quando i comunisti erano una cosa seria, e tragica. Ora però, siccome le tragedie della storia tendono a ripetersi, ma in forma di farsa, abbiamo Matteo Orfini. Che, in mancanza delle pedate di Stalin, deve accontentarsi di quelle – metaforiche – di Renzi.
Nato a Roma nel 1974, cresciuto nel mito di Togliatti, protagonista delle occupazioni al liceo Mamiani, iscritto ai Ds a 20 anni nella sezione di piazza Mazzini, studente senza laurea in Archeologia, promosso nel 2004 portaborse di D’Alema a Bruxelles e poi a Palazzo Chigi (governo Prodi-2), capo relazioni istituzionali della Fondazione Italianieuropei (dove incontra per la prima volta Ignazio Marino), responsabile di Red Tv (la tv dalemiana che chiuderà nel giro di 20 mesi), Orfini fonda con Fassina e Orlando i Giovani Turchi, cioè la corrente delle giovani marmotte dalemiane. Bersaniano con Bersani segretario, lettiano con Letta premier, cuperliano alle seconde e ultime primarie, il piccolo Matteo saluta tutti e passa con quello grande: il vincitore. Che, in cambio del tradimento della Ditta, lo fa presidente del Pd e poi commissario del partito a Roma dopo la prima retata di Mafia Capitale. In pubblico gli riserva grandi soddisfazioni, ammettendolo financo nella ristretta cerchia dei compagnucci di giochi: playstation la notte della sconfitta alle amministrative, calciobalilla alla festa romana dell’Unità. In privato il gioco è un altro, molto meno piacevole: il calcinculo. Orfini diventa il Molotov di Renzi, il suo Culetto di Piombo tascabile.
“Trovo vergognoso che Gianni De Gennaro sia presidente di Finmeccanica”, twitta l’8 aprile: poi il Matteo Maggiore conferma De Gennaro e sconfessa il Minore. “Il Pd voterà per l’arresto di Azzollini”, annuncia il Minore l’11 giugno: infatti il Pd salva Azzollini dall’arresto.
A Roma il primo ordine di scuderia è puntellare Marino e fare un po’ di pulizia nelle sezioni delle tessere false e dei mafiosetti capitolini, prima che i carabinieri arrivino con l’accalappiacani e portino via tutti. E Culetto di Piombo si mette d’impegno. Prima accusa i servizi segreti di non averlo avvertito che Carminati aveva le chiavi del Campidoglio (ma bastava leggere Suburra di Bonini e De Cataldo, o Lirio Abbate sull’Espresso). Il 5 giugno proclama: “Cacceremo via i corrotti, chi è contro Marino è con la mafia”. Ma 11 giorni dopo Renzi scarica Marino a Porta a Porta: mafioso pure lui? Non sia mai. Orfini, rimasto l’ultimo a difendere il chirurgo come il giapponese nella foresta, si mette a vento: “Occorre un cambiamento, migliorare l’azione amministrativa, un salto di qualità, condivido la posizione di Renzi, Marino si dia una mossa”, anche se forse “Roma merita un approfondimento maggiore di una battuta in un’intervista”.
In privato i due scazzano: “Se la mia parola non conta e tu dai un’altra linea – dice il Matteo Minore al Maggiore – senza nemmeno avvertirmi, allora metti Lotti commissario e io me ne vado”. Ma no che non se ne va, anche perché i sondaggi a Roma danno primi i 5Stelle. Meglio tener lì Marino. “La fonte di legittimazione sono i cittadini elettori, Marino non può andarsene perché lo decidono Orfini o Renzi”, dice Culetto di Piombo. Infatti Marino se ne andrà perché l’hanno deciso Orfini e Renzi, anzi Renzi e basta. Prima però il Minore giura che l’assessore renziano Improta “non si dimetterà”: infatti si dimette l’indomani, insieme a un altro renziano. Anche stavolta Renzi s’è scordato di avvertire Orfini, che prima fa buon viso (“Improta aveva esaurito il suo compito, ora scatta la fase 2”), poi sbotta: “Impossibile andare avanti così, ci vuole un salto di qualità”.
Aridaje. Gli danno la scorta, mentre a Marino aggiungono una badante (Gabrielli). Matteino va a prendere altre pedate da Matteone: “Io ci metto la faccia, non puoi umiliarmi così”. Poi regala a Marino tre nuovi assessori, anzi “tre fuoriclasse”: “La fiducia a Marino l’hanno data i cittadini, governerà fino alla scadenza, poi si vota e rivinciamo”. Sì, buonanotte.
L’estate del suo scontento porta il Funeral Show Casamonica, i viaggi di Marino negli Usa e gli scontrini. L’8 ottobre, di buon mattino, Maggiore chiama Minore: “Sai che c’è? Via Marino o via tu”. Altri calci a Culetto di Piombo che, oplà!, ritira i tre fuoriclasse e con agile balzo si rimangia tutto quel che aveva detto negli ultimi sei mesi: “Marino è un capitolo chiuso. Ho provato a difenderlo, ma ha fatto troppi errori”. Primarie? Renzi dice un giorno sì e un giorno no, ergo Orfini dice nì: “Decideremo caso per caso”. Vedi mai che arrivi un’altra pedata. Basta un niente, e son piaghe da decubito.