Corriere della Sera, 13 ottobre 2015
Com’è fatta la casa di Alessandro Manzoni
Entrare nella casa di un grande scrittore per sentirne lo spirito, respirarne la vita non solo dalle carte, osservarla negli oggetti che ha lasciato, immaginarla nello scrittoio, nel caminetto di marmo, nella stufa, nelle poltrone consumate, negli occhiali, nella boccetta di inchiostro, nella tabacchiera, nel letto singolo in ferro, su cui diede «il mortal sospiro».
Alessandro Manzoni fu la sua casa, quella di via Morone 1 a Milano, perché la sua casa, l’unica sua casa tra le tante che ha abitato, fu quella di Milano. Lo dice Jone Riva in un libro pubblicato anni fa dal Centro Nazionale Studi Manzoniani, Immagini di Casa Manzoni: è quella milanese la sola abitazione veramente sua, l’unica che comperò, nel 1813, sborsando di tasca propria 106 mila lire. A Milano, in via San Damiano, Alessandro era nato nel 1785, in un palazzo preso in affitto dalla famiglia. Nel 1807, lo scrittore ventiduenne ereditò dal padre Pietro il «palazzotto» del Caleotto a Lecco. Ed era già entrato in possesso della villa di Brusuglio, acquisita nel 1805 dalla madre Giulia come erede di Carlo Imbonati.
Ma Milano è Milano. La famiglia sempre più numerosa, dopo il matrimonio con Enrichetta Blondel (1808) e la nascita di Giulia (1808) e di Pietro (1813), spinge Alessandro verso l’acquisto di quel palazzetto in contrada del Morone, angolo piazza Belgioioso, che Alberico de Felber ha messo in vendita. L’atto notarile, del 2 ottobre 1813, parla di una «casa civile con giardino» precisando i modi del pagamento: 26 mila lire in contanti, le altre 80 mila a rate. Pochi mesi dopo, scrivendo all’amico francese Fauriel, Manzoni mostra l’entusiasmo per quell’acquisto: «Quanto a me sono tra la famiglia, gli alberi e i versi. Abbiamo acquistato una casa in cui c’è un bel giardino di circa un decimo d’arpento, in cui non ho mancato di piantare liquidambar, sophora, thuja, abeti che, se vivo a sufficienza, verranno un giorno a trovarmi dalla finestra». La casa significa: affetti familiari e lavoro (i versi sono quelli degli Inni sacri ), ma anche natura, pur trovandosi nel pieno centro di Milano, a un passo dal Duomo, dalle librerie e dalle biblioteche (la Braidense e l’Ambrosiana ma anche il Gabinetto Numismatico), a due dai pochi amici, Federigo Confalonieri, Silvio Pellico, Carlo Porta, i Verri, Vincenzo Monti. Un «cerchio magico».
«Qui fa caldissimo – scrive mamma Giulia (Beccaria) nel luglio 1814 – Milano è pieno di gente perché i militari vi formicolano (…), si troviamo contentissime della nostra casa per l’aspetto veramente felice sì nell’inverno che nella state ma necessita molte molte riparazioni». E si capisce, trattandosi di una vecchia casa su tre piani, la sala da pranzo al primo piano, la «sala rossa» di conversazione, lo studio, la camera matrimoniale, le stanze dei ragazzi…, tutto ciò che doveva soddisfare via via le esigenze di dodici persone: donna Giulia e la nuora Enrichetta con Alessandro e i nove figli di varie età, gli ultimi dei quali (Filippo e Matilde) hanno ancora bisogno di una balia. Poi, nel 1837, l’arrivo della seconda moglie, Teresa Borri Stampa, che si insedia in un camerone-stanzone al primo piano, con un figlio diciassettenne.
«Forse – ricorda Angelo Stella, direttore del Centro – le magnolie attuali non discendono da quelle piantate dal “fattore di Brusuglio”, ma restano segnale botanico di questa casa, come “la chioma folta del fico che sopravanzava il muro” della “casetta” di Lucia…». Dallo studio, dove si svolsero gli incontri storici con Garibaldi, Cavour e Verdi, sembra che don Lisander guardi ancora il giardino: ci sono gli arredi originali, i libri postillati. Mary Clarke, la compagna del Fauriel, ricordò in una lettera l’aria festosa dei giochi in famiglia nell’inverno 1824, le partire a moscacieca con Pietro, Giulietta e madame Manzoni, mentre lo scrittore gioiva conversando con l’amico Claude. Nel palazzetto di via Morone, don Lisander sembra recuperare, con la giovane moglie e la prole vivace, la fanciullezza che non ha mai vissuto.
Saranno vent’anni anni felici, fino al Natale 1833, quando con la morte di Enrichetta e poi con quella di Giulietta le voci gaie di ieri saranno solo un ricordo. «Silenziosa e ghiacciata», con un’«aria claustrale», apparve la casa alla poetessa francese Louise Colet nel 1862, quando andò a visitare il venerabile scrittore, un «bel vegliardo dalla figura alta e diritta» che le venne incontro nello studio, dove, come scrisse Alberto Savinio, si prolungava la «luce vegetale del giardino».
La stessa di oggi.