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 2015  ottobre 12 Lunedì calendario

Viaggio nel sacrario militare tedesco di Caira, in Ciociaria, dove giacciono i cadaveri di 20.059 soldati nazisti (l’ultimo è stato sepolto due giorni fa). «Il colpo d’occhio è stordente: file di lapidi a croce tozza, di marmo bianco, formano una dentatura semicircolare che si apre sul fianco della collina elencando migliaia di nomi, tre per croce: soldati semplici, Gefreiter, Obergefreiter, Unteroffizier della Wehrmacht, oppure anonimi (“Eine Deutscher soldat”), quasi tutti fatti fuori dai bombardamenti alleati della primavera del ’44. Diciottenni, ventenni partiti dalla Sassonia, dalla Turingia, per venire a morire qua, sulla montagna di Cassino»

La linea Gustav con cui i tedeschi tagliarono in due l’Italia cinge la Val di Comino con una dolcezza brumosa tipo Chianti, del tutto illogica qui. E infatti tutto intorno pareti di roccia dura e dalla superstrada Sora-Atina-Cassino facciate rocciose color zafferano, a strapiombo sulla Ciociaria indocile, selvatica.
Si parte da Atina, “città saturnia” e sede di un sobrio festival del jazz, non mainstream e perciò apprezzatissimo dai veri intenditori. Il navigatore non conosce il paese di Caira, poche case su una collina a due passi da Cassino: perciò si mette “Cassino”. Il “cimitero dei caduti germanici” è a metà tra il picco eremitico di Montecassino, su cui svetta la ricostruita abbazia, e la terra delle “marocchinate”, gli stupri e le razzie ad opera dei goumiers marocchini al soldo dei francesi, devastatori belluini de La Ciociara.
Per i romani è provincia mentale di Roma
Se Frosinone, fatta capoluogo dal fascismo, è la capitale amministrativa, Cassino è la capitale morale della Ciociaria. Per i romani la Ciociaria tutta è una provincia mentale di Roma (Tommaso Landolfi, ciociaro di Pico, ricordava come non c’era commedia popolare romanesca in cui non comparisse un personaggio rozzo ai limiti della idiozia a cui un altro, per far sghignazzare gli spettatori, chiedeva se fosse di Frosinone), ma Cassino è gemellata con la nostra tragedia nazionale, è ustionata dal vento della Storia e incute un rispetto quasi sacro, più dei paesi sotto che sono pur sempre la porta al Regno delle sue Sicilie.
Qui, dove il romanesco si fa meno ciarliero, la categoria più aborrita pare quella dei turisti romani: distratti, molesti, dotati di denaro spiccio che fanno tintinnare sui banconi dei bar. Ai forastici, pure se vantano ¼ di sangue ciociaro come la cronista, è ostico l’orientarsi. Si sbaglia strada; il centro storico di Caira è un’Italia stereotipa da film di John Turturro: donne col grembiule su salite in pietra, uomini in canottiera, trattori.
Ai perniciosi gitanti con navigatore i nativi interrogati danno indicazioni vaghe tipo contadini polacchi interpellati su Auschwitz: “Tedesco?”, contro-chiede un passante, con l’aria di pensare “E lo venite a cercare qui?”. Un signore in bici: “Io conosco quello polacco”. Una vigilessa ci getta su una scala di Escher: “Al limite chiedete”, e: “Ci sono i cartelli”. E infatti dopo una teoria di striscioni “Pasto turistico” e ristoranti con bandiere tedesche e insegne di birra crucca famosa, si precisa la toponomastica comunale, si dilegua la vaghezza delle pro-loco, si accede per un ponticello a una specie di piccola Baviera, con villette ordinate e ruscelletti che tagliano strade romantiche e un po’ kitsch.
Un cartello avvisa di serpenti velenosi
Il “sacrario militare tedesco” cresce su una collina rigonfia, in una pace sinistra che il giardino alla tedesca-italiana approfondisce invece di lenire. Un cartello avvisa di serpenti velenosi: chi accede lo fa a proprio rischio e pericolo (che non ci si sogni di chiedere danni alla Germania, cioè). Al termine di una scala di pietra si entra in un atrio di marmo che raggela lo spirito; una scritta in ferro dal lettering assertivo informa che qui sono seppelliti 20.057 Deutsche soldaten (ma non è aggiornata).
Il colpo d’occhio è stordente: file di lapidi a croce tozza, di marmo bianco, formano una dentatura semicircolare che si apre sul fianco della collina elencando migliaia di nomi, tre per croce: soldati semplici, Gefreiter, Obergefreiter, Unteroffizier della Wehrmacht, oppure anonimi (“Eine Deutscher soldat”), quasi tutti fatti fuori dai bombardamenti alleati della primavera del ’44. Diciottenni, ventenni partiti dalla Sassonia, dalla Turingia, per venire a morire qua, sulla montagna di Cassino. Sotto un sole violento compare il custode, sul fenotipo di Marx o Remo Remotti, in compagnia di una donna sui 70, tedesca. “Grazie per essere venuti”, dice lei subito, “mio padre è seppellito qui”. La stanza del custode alterna arredi in stile DDR con elementi da ufficio postale di Procida nel 1950. Un albo conta decine di firme di visitatori, parecchi tedeschi, forse nostalgici, nessuna scolaresca. Una nicchia all’ingresso ospita il busto del colonnello Julius Schlegel: “Ha salvato il tesoro di Montecassino”. Il Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge e.V., associazione privata per l’individuazione e le cura delle tombe di guerra che ha costruito il cimitero nel 1959, ha pensato al busto di un “eroe”, piuttosto che a quello del generale Kesserling, a cui Calamandrei promise la lapide.
Risulta che questo Schlegel, viennese figlio del proprietario di una ditta di trasporti, negoziò con l’abate Gregorio Diamare per salvare il tesoro in quello che la Storia costringe a considerare un salvataggio, visto il bombardamento alleato di poco dopo che distruggerà l’abbazia per stanare il nido dei tedeschi, che però non c’erano. Dopo aver rapinato opere d’arte in tutta Europa, i ladri di Göring esitarono davanti a quel bendidìo (resti del Museo archeologico di Napoli e di Ercolano e Pompei, undici Tiziano, un El Greco, due Goya e il tesoro di San Gennaro), certo più per propaganda che per reale sensibilità, visto che la storia dell’arte dei nazisti, come è chiaro ne Le benevole di Jonathan Littell, era un misto di erudizione avariata e amore per la paccottiglia. La figlia del soldato è commossa, ci crede filo-germanici e perciò si confida: “Vengo in Italia due volte l’anno, non viene mai nessuno… Nel 70° anniversario abbiamo fatto una cerimonia seria, con musiche di Beethoven, non come i polacchi, che hanno fatto casino”.
Il metal dector scopre l’ultimo degli “ospiti”
Sono 20.057, dunque? Il custode freme: “Da ieri 20.059”. Da ieri? “Siamo andati a recuperarlo e l’abbiamo seppellito”. Ma chi? “Il morto”, proprio così, dice, non il corpo, non lo scheletro, non il tedesco. Mostra un ritaglio di giornale: “È stato trovato coi metal detector grazie alle mostrine”. La campagna di Cassino, su cui è stata tirata su questa Tirana post-agricola, è ancora disseminata di morti, spoglie della carneficina. La tedesca aspetta la domanda che non faremo: “Cosa pensa del nazismo?” o addirittura: “Lei è nazista?”, ma chiude: “È importante la riconciliazione”. “Tra chi?”, chiedo, pensando al Barbarossa, a Italia-Germania 4-3, alla troika, allo spread, mentre la mia faccia dice che non voglio riconciliarmi con Eichmann, con Schlegel, con suo padre. “Tra il presente e il passato”, risponde il custode per lei. Nella luce zenitale, parossistica, di mezzogiorno, capita di pensare che sia giusto, che sia possibile.