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 2015  ottobre 12 Lunedì calendario

Sara Anzanello, che era campionessa del mondo di pallavolo, e dopo le hanno trapiantato il fegato. Adesso ha ricominciato a giocare (in B1) e racconta in che modo si può tornare vivi

TRECATE.
Lei corre piano senza smettere, girando intorno al campo di pallavolo. Ha una tuta grigia sopra le gambe magrissime. Ogni tanto alza gli occhi e guarda le altre giocare, segue il volo dei palloni. La lentezza dei gesti, la tenacia. Quel fischio che fa la palla quando sbatte a terra e si sente da fuori, fino alla ferrovia, dietro il palazzetto dello sport. Nuvole, tra poco piove.
Girare in tondo, correre, saltellare tra i pioli di una specie di scala appoggiata a terra, afferrare un pallone rosa e sorridere. «È tutto una prima volta». Legarsi con l’elastico in vita al preparatore atletico Marco, mimare il gesto del muro, fare salti laterali e torsioni. I rintocchi di un campanile nel mezzogiorno, oltre la distesa dei prati.
«Io lo faccio per me».
Sara Anzanello era una campionessa del mondo. Si prese l’epatite fulminante quando giocava a Baku, marzo 2013, la trasportarono a Milano, sei giorni in coma, il trapianto di fegato, 25 chili persi, il ritorno dentro se stessa e infine in palestra, dopo due anni e mezzo. Con l’Agil Novara dove tutto cominciò: aveva 19 anni, ora ne ha 35. E un obiettivo: tornare a gennaio.
«Prima mi sono allenata per una vita decente, per non dover dipendere dagli altri, per camminare da sola, per potermi specchiare e sentirmi di nuovo io. Ora mi alleno per la pallavolo, perché un giorno sarò io a dire basta, non un medico. Mi piace ancora da matti, l’occhio e il gesto non si dimenticano, la forza verrà. E il corpo tornerà rapido come la testa».
Le altre ragazze hanno preso i borsoni, invece Sara continua in palestra. Un’ora e mezza al mattino, un’ora e mezza il pomeriggio e un’altra in piscina. Nulla di estremo o patetico, solo la forza della vita quando vive.
«Le ricordo tutte, le mie prime volte dopo il trapianto. La prima volta che ho toccato di nuovo l’acqua, che ho rivisto il sole, che ho camminato. La paura di non essere all’altezza, di fare solo compassione. Bisogna capire e accettare i limiti, ma io mica li conosco, i miei. Mi bastava essere di nuovo in piedi, però quest’estate ho giocato con i bambini del mio Camp, a Jesolo, e mi sono detta: io ritorno. Sto ricostruendo il corpo come piace a me, sono contenta, le magagne di un’atleta di 35 anni sono pane quotidiano, il polso, il ginocchio, io in più ho questo fegato. Ma lo sapete quante cose fa, un fegato?» La squadra gioca in B1. Le altre ragazze sorridono alla campionessa del mondo di Berlino 2002, all’azzurra famosa e quasi perduta. Le mani picchiano il pallone, l’aria schiocca nel silenzio. Sara si mette il giubbotto, beve un po’ d’acqua. «Siamo fragilità e forza, siamo macchine semplici e complesse. Qui volevano una chioccia per far crescere la squadra, sono felice di esserci e credo di potermi rendere utile. La presidentessa del Novara si chiama suor Giovanna Saporiti, sì, è una suora». Il senso, sempre lì si torna. «Una storia del genere ti fa capire che devi essere positiva anche con quello che non puoi cambiare, e che spesso i presunti problemi sono invece enormi scemenze, cose superabilissime».
Il fegato di Sara apparteneva a un maceratese di 58 anni, morto per emorragia cerebrale. La moglie decise la donazione, ancora poche ore e sarebbe stato tardi. Ma il capello a cui siamo legati, quell’affacciata di finestra, può diventare un cavo d’acciaio. «Devo fare gli esami del sangue ogni tre mesi e la paura ce l’hai prima, non ci si abitua mai. Però non mi sento in bilico, anche se so di avere meno difese immunitarie del normale. La vita sana, beh, per l’atleta è la regola: mai mangiato fritti, solo pasta e bistecche, anche il mio nuovo fegato sarà d’accordo. Sono altri, semmai, i parametri che cambiano, i riferimenti. Si impara ad apprezzare la lentezza, a godersi le piccole cose, i genitori, gli amici, il mare, Jesolo. Io ho fatto la prima vacanza che avevo 26 anni. Lo sport è grande ma ne toglie, di cose».
Come Abidal, come lo sciagurato Armstrong quando ancora pareva vero, anche Sara Anzanello sa che un campione che guarisce è una forza diffusa a disposizione di chi soffre e vacilla. «Non mi sento un simbolo, però credo che una storia come la mia possa servire a chi sta aspettando un nuovo organo, oppure a chi insegue il primo passo dopo un trapianto: io impiegai un mese e restai in ospedale un anno, eppure eccomi qui. Certo, penso ai miei privilegi, soprattutto psicologici: chi ha perso una finale scudetto all’ultima palla sa che lo sconforto è un precipizio dal quale si può risalire. E sa pure che l’ultima palla è sempre la penultima, perché un’altra partita dovrà pur venire, al limite un’altra sconfitta».
L’odore di palestra, la luce che precipita dalle vetrate. Il linoleum, il giallo dei neon. Le panche, i gradoni di cemento. A gennaio, allora. «Sì, e penso di esserci. Mi chiedono: ma chi te lo fa fare? La risposta è facile: io». Sara è grandiosa quando dice «forse bisogna rivalutare la retorica dello sport: possiede comunque una forza enorme». E poi ci ride sopra.