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 2015  ottobre 11 Domenica calendario

Tutti i problemi del raccontare a puntate. Da tenere a mente adesso che arriva Netflix

Quando nell’ottobre del 2008 Netflix lanciò un servizio di streaming online in abbonamento, nessuno immaginava che avesse le carte in regola per rivoluzionare il mondo delle serie televisive. Certo, al tempo Netflix poteva già vantare dieci milioni di abbonati, ma fino a quel momento aveva basato il proprio business sul noleggio di film e videogiochi attraverso la rete. Fu nel 2011, quando la società di Los Gatos rivelò di avere in cantiere la sua prima serie originale, House of Cards, che i sismologi del panorama televisivo cominciarono a registrare le prime scosse. Quello che fece scalpore, nello specifico, fu la decisione di rendere disponibili fin da subito tutte le puntate della prima stagione.
Oggi, a pochi giorni dall’arrivo del servizio in Italia (previsto per il 22 ottobre), Netflix conta 65 milioni di abbonati, una ventina di serie esclusive e un modello produttivo che cambia il modo in cui vengono creati (e fruiti) i prodotti televisivi seriali.
A differenza del cinema, oggi la televisione viene ancora relegata a un ruolo artistico secondario, secondo alcuni critici infatti le opere seriali non rappresenterebbero il frutto di uno sforzo creativo, quanto il prodotto di un’urgenza commerciale. E questo è curioso, dal momento che probabilmente quegli stessi critici tengono in bella mostra nelle loro librerie una copia rilegata di Grandi Speranze o del Conte di Montecristo; opere che, a voler essere pignoli, sono state a loro volta pubblicate a puntate seguendo coordinate specificamente commerciali. Il romanzo d’appendice del resto ha origini tutt’altro che nobili. I primi esempi di letteratura seriale risalgono alla fine del XVII secolo, ma il genere riscosse un’effettiva popolarità solo nei primi anni dell’Ottocento, quando Julien Louis Geoffroy e Louis-François Bertin ebbero l’idea di dedicare una porzione della pagina politica del loro «Journal des Débats» a contenuti culturali di vario genere (il cosiddetto Feuilleton ); la strategia era chiara: bisognava indurre i lettori a comprare il giornale con cadenza regolare. Il vero artefice del successo del romanzo d’appendice fu Charles Dickens che, a partire dal 1836, con la pubblicazione sul «Morning Chronicle» dei primi capitoli del Circolo Pickwick, perfezionò una formula narrativa che avrebbe fatto scuola: ogni opera era tendenzialmente costituita da venti fascicoli mensili, ognuno dei quali includeva trentadue pagine di testo, sedici di pubblicità, due illustrazioni ed era acquistabile al costo di uno scellino. Nel corso del XIX secolo il romanzo d’appendice si impose come un genere letterario vero e proprio, e molti dei classici che oggi vengono venduti in volume integrale nacquero in realtà come romanzi seriali; qualche esempio: Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, Anna Karenina di Lev Tolstoj e I Fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij.
La popolarità di queste opere era tale da scatenare episodi di isteria non troppo diversi da quelli che circondano oggi le première di alcune serie tv. Ciò che rendeva irresistibili i romanzi d’appendice era il tipo di aspettativa che la cadenza seriale generava nel lettore. Sebbene in molti casi gli episodi potessero essere fruiti in maniera autonoma, spesso fungevano da ingresso agevolato per un’opera che, se presentata subito nella sua interezza, avrebbe scoraggiato i lettori meno navigati. Inoltre, attendere un mese per sapere come la storia sarebbe proseguita suscitava lo stesso tipo di suspense che ancora oggi tiene incollati al calendario i fan de Il Trono di Spade.
Il paragone non è casuale. C’è chi è convinto che il modello seriale proposto da Dickens influenzi ancora oggi il nostro modo di fruire le storie. In The Pleasures of Memory Learning, la critica americana Sarah Winters suggerisce che la capacità di Dickens di fare presa sul pubblico dell’epoca fosse dovuta alla scelta di reiterare i medesimi concetti in forma sequenziale, andando così a fare leva sugli stessi processi neurologici che regolano l’apprendimento e, per certi versi, alcune forme di dipendenza. In poche parole: il contenuto seriale non era solo più digeribile per il lettore, era anche più efficace nel tenerlo agganciato a una storia.
Analogamente ai romanzi d’appendice, per lungo tempo le serie tv sono state prodotte seguendo una formula specifica: le sit-com erano suddivise in puntate da trenta minuti e caratterizzate da una trama verticale (alla fine di ogni episodio si ritornava a una situazione simile a quella iniziale); le serie drammatiche invece avevano generalmente puntate di un’ora e sovrapponevano alla trama verticale anche un arco narrativo orizzontale. Questa impostazione garantiva allo spettatore di poter salire a bordo in qualunque momento, senza bisogno di preamboli.
Dalla fine degli anni Novanta in poi si è fatto strada un tipo di approccio differente: in serie come I Sopranos, Lost e The Wire le storie seguivano un arco narrativo che poteva durare anche più di una stagione, il che consentiva agli autori di concentrarsi meglio sulle tematiche sottese alla storia e sulla caratterizzazione dei personaggi.
Una delle critiche più comuni mosse agli autori televisivi riguarda la loro tendenza a osservare le reazioni del pubblico dopo ogni puntata per correggere il tiro in quelle successive, ed è plausibile che lo stesso accadesse agli autori di romanzi d’appendice. Il fatto di sapere che l’opera sarebbe stata fruita a scaglioni, e in un arco di tempo molto lungo, aveva necessariamente una ricaduta sulla scrittura: a ogni episodio il lettore doveva essere in grado di recuperare le fila della narrazione e questo richiedeva che l’autore ritornasse sugli elementi della trama con più frequenza rispetto a un romanzo integrale. Un approccio radicalmente diverso da quello rivendicato da molti romanzieri contemporanei. Stephen King, che di certo non è estraneo alla scrittura seriale (uno dei suoi romanzi più noti, Il miglio verde, è stato pubblicato originariamente in sei puntate), ha più volte ribadito che la prima stesura va fatta a porte chiuse, cosicché l’autore abbia piena facoltà di sbagliare, per poi consegnare alle fauci dei lettori solo una versione completa e corazzata dell’opera.
Con la diffusione del «modello Netflix» e con l’arrivo sul mercato di altri servizi on demand come Hbo Now e Amazon Prime, anche gli autori di serie tv dovranno imparare a tenere chiuse le porte delle loro writing room. Contrariamente a quanto si pensi, stando ai dati raccolti da Netflix, il primo episodio pilota non è sufficiente ad agganciare saldamente lo spettatore, che generalmente non si appassiona a una serie prima della metà della stagione d’esordio. Ma se da un lato la trasmissione dilazionata esponeva le serie tv del passato al rischio di perdere spettatori alle prime curve, dall’altro consentiva di monitorare costantemente la reazione degli spettatori, il che permetteva agli showrunner di serie come Lost e Dexter di allungare il brodo senza timore di perdere una fetta troppo grossa di pubblico. Con il modello tutto-in-uno, invece, gli autori sono costretti a concepire l’intera serie (o quantomeno la prima stagione) senza poter intervenire sulla storia in corso d’opera.
Tra le nuove serie in arrivo il prossimo 22 ottobre con Netflix, una delle più valide è Bloodline, torbido dramma famigliare ambientato nelle Florida Keys. Pur senza rinunciare a colpi di scena e ganci narrativi, gli autori hanno dovuto articolare fin da subito una storia di circa tredici ore, con risultati sorprendenti. Bloodline ha il respiro di un romanzo di Philipp Meyer, tanto che i singoli episodi assomigliano più ai capitoli di un libro che alle puntate di una serie tradizionale, tuttavia, la mole di flashback e ricapitolazioni tradisce ancora una sostanziale mancanza di fiducia nella capacità dello spettatore di orientarsi da solo.
È interessante notare come lo stesso invece non accada in una serie come Mad Men che, pur essendo prodotta e distribuita secondo i canoni tradizionali, fa tranquillamente a meno di queste stampelle narrative. Se il modello Netflix riuscirà a imporsi, gli autori televisivi potranno rinunciare al didascalismo e alla facile suspense, concentrandosi maggiormente sulla caratterizzazione dei personaggi e sulla solidità della struttura narrativa. Non solo, sarà possibile diversificare il numero e la lunghezza dei singoli episodi, assecondando un ritmo più consono alla storia narrata. Certo, magari queste risulteranno poco accessibili per gli spettatori meno allenati, ma gratificheranno quelli più esigenti. Uno scarto che, curiosamente, ricorda quello che divideva i lettori all’epoca dei romanzi d’appendice.

L’opinione di Aldo Grasso
Netflix era la più grande società statunitense di noleggio via posta di dvd (una meraviglia ai tempi) e ora si avvia, anche in Italia, a essere protagonista della tv on demand , in streaming . La tv lineare (quella dominata dal palinsesto) continua a rappresentare il fulcro centrale del consumo tv ma le abitudini si stanno personalizzando, sia attraverso le piattaforme over the top di player precedenti sia attraverso i servizi on demand di nuovi operatori. Stiamo assistendo a una specie di paradosso: il prodotto tv (parliamo di quello di qualità, rappresentato soprattutto dalle serie) assomiglia sempre di più al libro. Si stanno formando delle enormi library da cui attingere in base a scelte personali: è l’editoria digitale. È ovvio che la globalizzazione dei mercati porti inevitabilmente a nuovi scenari in cui convivono radicate abitudini di consumo con forme alternative. E il cambiamento è ancora più sensibile in Italia dove vecchie rendite di posizione, come il duopolio Rai-Mediaset, l’hanno fatta da padrone per molti anni, con il consenso della politica. Adesso, sulla spinta della concorrenza, anche Rai, Mediaset e Sky hanno fatto ricorso all’ on demand , per soddisfare i bisogni individuali e aprirsi a un nuovo mercato. In realtà, per la prima volta nella storia della tv, non stiamo aspettando nuovi prodotti (quelli, in un modo o nell’altro, arrivano) ma stiamo aspettando Netflix, come se avesse poteri taumaturgici per liberarci dalla «vergogna» di guardare la tv. Se sono io a scegliere, allora appartengo a quell’élite di persone che non si fanno condizionare dal trash, dalla volgarità o dalla noia dei palinsesti tradizionali. Come se Netflix fosse l’Adelphi della tv. Andiamoci piano, si fa molta retorica sull’arrivo di Netflix: viviamo in un periodo di transizione, dove tv generalista e tv tematica rappresentano ancora due universi antitetici e contrapposti, ma a dettare l’agenda mediatica resta sempre la «vecchia» tv (soprattutto in assenza di banda larga). Tutte le scosse fanno bene al sistema, tutti sono diventati esperti di serialità (e pontificano) ma i media procedono più per aggiustamenti che per rivoluzioni.

Da sapere
La piattaforma
Netflix è un provider on demand, un erogatore di contenuti online in streaming. Presente negli Stati Uniti, dove è stato fondato nel 1997, ora è disponibile anche in altri Paesi; in Italia dal 22 ottobre.
Netflix ha rivoluzionato il mondo dell’intrattenimento in rete rendendo disponibili in blocco le serie tv complete e producendo contenuti originali di qualità come
House of Cards e Orange is the new black
Come funziona
Il requisito minimo è una connessione internet a bassa velocità (5 Mbps per una visione in HD, quindi già ottima). Con 20 Mbps si potrà accedere a una visione 4K, quattro volte maggiore del Full HD. L’abbonamento mensile parte da 7,99 fino a 11,99 euro per il 4K a patto di possedere un televisore di ultima generazione. La programmazione è fruibile su tutti i dispositivi mobili e sugli schermi di PC e Apple
La lingua
I contenuti saranno tutti doppiati in italiano o sottotitolati. Già pronta una produzione nostrana: la serie Suburra tratta dal film di Stefano Sollima