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 2015  ottobre 11 Domenica calendario

Roberto Vecchioni ricorda la rimonta dell’Inter del 12 maggio 1965: «Neanche il tifo somiglia più a quello di una volta»

Milano, 12 maggio 1965, sera. Appoggiati alla cancellata dello stadio di San Siro un ragazzo e una ragazza si abbracciano e sembra che niente al mondo li possa spostare da lì. Dentro, c’è una partita pazzesca. Ma i due ragazzi restano fuori a baciarsi. Non entrano per tutto il primo tempo. Non vedono il gol di Corso all’8’ né quello di Peirò al 9’, i due gol in un minuto che danno il via a una delle più memorabili rimonte della storia del calcio.
Milano, una mattina di quasi mezzo secolo dopo, con un po’ di sole e un po’ di foschia, le foglie gialle sugli alberi e la gente che si affretta per le compere di Natale. Insomma una mattina milanese, quindi bellissima. Ho appuntamento con Roberto Vecchioni alla redazione di via Paleocapa de La Stampa e ci vado a piedi, passando per via Meravigli e poi via Carducci, fino a oltrepassare piazzale Cadorna. Ma prima di arrivare lo vedo che passeggia lì, con il sigaro in mano, più o meno davanti all’ingresso del parco Sempione, e lo fermo con un «buongiorno». Mi invita a bere un caffè ed è bellissimo vedere che tutti ancora lo riconoscono e gli chiedono un autografo: i talent non hanno ancora fatto dimenticare chi sono i veri fuoriclasse della nostra canzone.
Mi parla dell’Inter che finalmente una partita è riuscita a vincerla, due a zero a Verona con il Chievo, gol di Kovacic e Ranocchia, però che tristezza. Siamo diventati nostalgici che rimpiangono sempre i vecchi tempi? Glielo chiedo non solo per il calcio. È che l’Italia sembra diventata un paese senza speranza. Non c’è fiducia, non c’è più una prospettiva. Non so chi abbia fatto più danni tra i ladri da una parte e i disfattisti dall’altra: per disfattisti intendo quelli che dicono tutto fa schifo, tutto è corruzione, tutto è perduto. I primi hanno fatto scandalo, i secondi hanno instillato il virus mortale della rassegnazione.
Com’erano, o perlomeno come ci sembravano più sorridenti quegli anni Sessanta. «Ho sempre avuto anch’io la paura», mi risponde, «che il vero motivo della nostalgia sia il fatto che allora eravamo più giovani. Ma con il passare del tempo questa paura mi è passata fino a scomparire, perché è un fatto oggettivo che gli anni Sessanta sono stati un sabato del villaggio. C’era un’energia, un’effervescenza. All’inizio degli anni Sessanta l’Italia era un paese che stava ripartendo alla grande. (…)
La sera del 12 maggio 1965 è la sera della semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni. Una settimana prima, il 4 maggio per la precisione, a Liverpool i Reds avevano strapazzato l’Inter per 3-1. (…) Quella sera lì, la sera del 12 maggio 1965, quando sono ancora negli spogliatoi i giocatori dell’Inter sentono arrivare dalle gradinate un baccano mai avvertito prima. Il pubblico dell’Inter è sempre stato un po’ freddo, e anche in quegli anni di trionfi prima di scaldarsi ce ne vuole. Ma quella sera San Siro spacca i timpani: In-ter, In-ter, In-ter. Quando entrano in campo, Sarti Burgnich Facchetti Bedin Guarneri Picchi Jair Mazzola Peirò Suarez e Corso vedono migliaia, decine di migliaia di lucine accese: sono gli accendini tenuti in mano dagli spettatori. (…)
Dopo otto minuti punizione dal limite. Mariolino Corso la mette dentro: 1-0. Passano solo sessanta secondi, altro attacco dell’Inter che finisce nelle braccia del portiere Lawrence. Il quale però poi mette giù la palla a terra e si guarda attorno per pensare bene a chi passarla: non vede che da dietro sta spuntando Peirò il quale, rapido e invisibile come un sommergibile, gliela porta via e segna a porta vuota. «Mai visto un gol simile», ricorderà anni e anni dopo Sandro Mazzola. Comunque 2-0. Ma non è ancora fatta perché la regola del gol in trasferta che vale doppio è di là da venire. Bisogna vincere almeno 3-0 per passare il turno. Nella ripresa quel ragazzo e quella ragazza che erano rimasti fuori a baciarsi per tutto il primo tempo entrano e fanno in tempo a vedere, al 17’, il gol che vale la qualificazione. (…)
Nasce quella sera una delle più belle canzoni della musica italiana, Luci a San Siro. Luci a San Siro è del 1980, quando già comincia a farsi strada la nostalgia. «Il luogo è proprio quello lì, la zona di San Siro, che allora era deserta, c’era solo il Monte Stella, o la Montagnetta come la chiamiamo noi a Milano», mi racconta Vecchioni. «Le sere in cui non c’erano le partite, cioè praticamente tutte, non c’era nessuno lì intorno e io ci andavo con la Seicento a limonare con la mia ragazzina. Quella di Inter-Liverpool fu una serata difficile. Io mi stavo comportando da padrone. Lei non stava bene, aveva mal di pancia, insomma ci siamo capiti: ma c’era la partita e io la costrinsi a venire allo stadio. La facevo correre per arrivare in tempo; io correvo, correvo e lei non ce la faceva a starmi dietro. Quando arrivammo all’ingresso era stravolta e allora io le dissi: non entriamo, stiamo qui appoggiati alla cancellata a baciarci. E fu così per tutto il primo tempo. Entrammo nel secondo, giusto per vedere il gol di Facchetti.»
Anche fare l’interista era meno difficile, in quegli anni. «Se posso dire, mi sembra un po’ una metafora di quei tempi e dei nostri. Adesso si va sempre allo stadio con la paura di perdere, perfino nell’anno del Triplete eravamo lì con la caga sotto fino all’ultimo minuto. Allora invece c’era una grande speranza di vincere sempre. Avevo cominciato ad andare allo stadio per vedere i gol di Angelillo e il mio unico dubbio era su quando avrebbe segnato. Per quanto fossimo leopardiani, c’era in noi una visione luminosa del futuro. Avevamo grandi speranze.
(dal libro appena Vinceremo di sicuro di Michele Brambilla, una rievocazione degli anni Sessanta)