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 2015  ottobre 11 Domenica calendario

La guerra per l’avorio che si combatte in Africa e sul mercato di Hong Kong, dove una zanna può valere 4,630 dollari

Una guerra sotterranea, che uccide uomini, donne e animali, si combatte nel cuore dell’Africa. Ci si ammazza per le zanne d’elefante, l’oro bianco che permette ai terroristi di aumentare i loro arsenali e ai funzionari corrotti di arricchirsi. Ma ogni storia di sfruttamento e di violenza in questa parte del mondo ha sempre un’appendice nei Paesi sviluppati.
L’ avorio della Tanzania, del Ciad, del Congo e del Sudan (acquistato nel luogo dove viene catturato l’animale a un prezzo che va dai 75 ai 265 dollari al pound, 0,45 chili) finisce in diversi quartieri di Hong Kong, dove il valore di una zanna grezza va dai 946 ai 4.630 dollari per un pound e si possono comprare statuette, anelli ed intere zanne riccamente decorate. I clienti sono soprattutto cittadini della Repubblica Popolare.
Le guardie uccise
Due giorni fa, quattro guardie del Parco Nazionale di Garamba, nel Congo, sono state trucidate da un gruppo di bracconieri. Altre sei sono riuscite a salvarsi, nascondendosi nella folta vegetazione. I rinforzi arrivano sempre troppo tardi, le armi si inceppano, le giovani reclute sono terrorizzate, gli elicotteri che ronzano sopra la testa sono pilotati da bracconieri/terroristi, spesso appoggiati da unità dell’esercito regolare. Come ha raccontato di recente il National Geographic, solo nel 2014, sono stati uccisi 132 elefanti nel Parco di Garamba, mentre 30.000 di questi animali vengono massacrati ogni anno nel Continente. Di questo passo, l’intera popolazione sarà estinta nei prossimi 12 anni, secondo i calcoli di un’associazione inglese che gestisce un orfanotrofio di piccoli elefanti a Nairobi.
Quando Joseph Conrad scrisse «Cuore di Tenebra», la novella ambientata in Congo nel 1890, gli «uomini vuoti» che consumavano l’oro bianco passeggiavano impuniti per le strade di Londra. Quegli stessi individui oggi si trovano soprattutto in Asia. Uno snodo cruciale del commercio mondiale di avorio sono due strade sull’isola di Hong Kong, e tre nel quartiere di Kowloon, sulla terra ferma. La mia guida in questo mondo parallelo è Rebecca Wong, che studia da anni il traffico di specie protette e insegna alla City University di Hong Kong. Basta fare due passi lungo Sheung Wan, vicino alla stazione metropolitana di Central, per vedere decine di negozi con insegne come «vendita al dettaglio e all’ingrosso di avorio». I prodotti più costosi sono figure intagliate, che rappresentano divinità, imperatori e imperatrici cinesi, scene di villaggio e persino la grande muraglia in miniatura, mentre gli oggetti più a buon mercato sono anelli e bastoncini per cibarsi. Ad Hong Kong operano diversi esperti intagliatori, rifugiatisi qui dopo la Rivoluzione culturale. A tutt’oggi sono riuniti in un’associazione di categoria, la «Hong Kong and Kowloon Ivory Manufacturing Association», che conta 84 membri attivi. I rappresentanti di questa associazione ammettono in privato che molti di loro si sono già trasferiti in Cina, dove il lavoro non manca.
Il cavillo legislativo
Come riescono negozianti ed intagliatori ad aggirare il trattato del 1989, che mette al bando un tale disgustoso commercio? Con un cavillo. In base alla legge, è possibile vendere e comprare avorio importato prima del 1989. Nella metropoli asiatica vi sono 447 titolari di licenza commerciale, per un totale di 117 tonnellate di avorio (dati 2013). Logica vuole che la merce importata prima della caduta del Muro di Berlino si sia ridotta nel corso degli anni, fino ad esaurirsi. Solo nel 2014, 42 milioni di turisti cinesi hanno visitato Hong Kong e i clienti che vedo uscire dai negozi lungo Sheung Wan e Jordan provengono appunto dalla Repubblica Popolare. Eppure l’avorio detenuto legalmente non cala dal 2005. Come è possibile? Delle due l’una: o questi negozi non vendono mai nulla oppure la merce viene rimpiazzata illegalmente.
L’unico modo per ottenere una datazione precisa è attraverso l’analisi chimica al carbonio. «Poiché il procedimento è complesso e costoso – spiega la dottoressa Wong – esso non viene mai eseguito». Questa conclusione è confermata da un funzionario dell’amministrazione incaricato di monitorare questi empori: «Non ho mai sentito dire che tali analisi siano state condotte», dichiara. L’amministrazione della città ha solo otto ispettori deputati a controllare le licenze di questi esercizi e il direttore di una galleria d’arte che vende opere di avorio ammette: «In tanti anni di lavoro, non ho mai visto né sentito dire di un’ispezione per verificare le licenze».
Dentro un negozio
È giunto il momento di entrare in un locale che in vetrina ha diverse statuette di avorio. Vengo portato nel retro, dove mi viene mostrata una figura di imperatrice cinese che tiene in mano un cesto e dei fiori, montata su una base in legno laccata in nero. Ufficialmente la scultura è del 19° secolo, ma il prezzo non riflette questa data. Dopo qualche insistenza mi viene detto che la datazione non è certa. Nondimeno, l’avorio sembra consumato. Ad occhio nudo, si direbbe che ha almeno trent’anni. Ben presto scopro che esiste un sistema rudimentale ma efficace per contraffarne l’età: mettere le zanne a mollo nel tè per diversi giorni. Così il cerchio si chiude: il turista compra un’opera che sembra d’epoca e la può esportare legalmente.
La polizia portuale di Hong Kong riesce ad intercettare alcuni container provenienti dall’Africa. Save the Elephant, una Ong benemerita che combatte da anni questo traffico ed è stata fondata da italiani, sostiene che le confische non vanno oltre il 10% del totale. Nondimeno, nel 2014 le autorità hanno bruciato 150 tonnellate di avorio, un importante gesto simbolico. Non sembrano però esistere casi di negozianti arrestati per la vendita illegale di avorio. Una volta che la merce esce dal porto, entra nel sistema commerciale, dove viene lavorata e poi acquistata impunemente.
Mentre Marlow, la voce narrante di «Cuore di Tenebra», viaggia lungo il fiume Congo diretto alla stazione di Kurtz, assiste a scene di tortura, crudeltà e schiavitù. I funzionari della Compagnia per cui lavora descrivono tutto ciò come «commercio». Il tempo passa e gli uomini parlano una lingua diversa, ma l’ipocrisia continua ad essere la stessa.