la Repubblica, 11 ottobre 2015
Viaggio a Kigali, Ruanda
Era la mia stanza 101. La chiave era posata sul comodino e portava proprio quel numero, come nel romanzo di George Orwell 1984: il luogo della tortura più irresistibile, dove ti fanno vivere il tuo incubo peggiore e più nascosto. Stanza 101 dell’hotel Millecolline a Kigali, Ruanda, molti anni dopo la data, poco diversa di quell’incubo che fu nazionale, 1994, i cento giorni che non sconvolsero il mondo, perché il mondo si occupò prevalentemente d’altro: i Mondiali negli Stati Uniti, l’ascesa di Berlusconi, l’apertura del tunnel sotto la Manica. Eppure in quei tre mesi e rotti fu massacrato a colpi di machete, o bastoni chiodati, un milione di persone, appartenenti all’etnia tutsi. Nel pomeriggio la guida mi aveva portato in visita a uno dei santuari, come li chiamava. Da una chiesa diroccata eravamo scesi a una baracca in campo aperto, aveva tolto l’asse che bloccava la porta e lasciato entrare la luce mostrandomi file su file su file di teschi. «Guarda là, ora», un punto nella terra: là era la fossa comune, il sangue aveva trasudato in superficie rivelandola. Avevano scavato, recuperato le teste mozzate, le avevano posate sugli scaffali a spolparsi.
Eravamo tornati al mio albergo poco dopo il tramonto. Ci avevano girato un film, ribattezzandolo Hotel Ruanda. Narrava di come il manager Paul, un hutu sposato a una tutsi, aveva salvato 700 persone da morte sicura dando loro rifugio. Aveva corrotto con vino e cibi di lusso i capi delle milizie, tenendoli al largo. Aveva stipato fino a dieci fuggitivi per ciascuna delle 113 camere, dato loro da bere l’acqua della piscina finché ce n’era stata, arruolato un prete, un medico, qualche infermiera. Il sacerdote aveva celebrato matrimoni nella sala congressi («Se verranno a tagliarci la testa, almeno ce ne andremo da marito e moglie»). I sanitari avevano assistito a un parto nella stanza 216: un maschio battezzato Moise. Il portiere di notte dell’epoca si chiamava Zozo e non aveva mai lasciato la sua postazione per tutto il tempo dell’assedio. Il successore, Sylvestre, mi porge le chiavi della 101 aggiungendo: «Per qualunque necessità chiami».
Avrei bisogno soltanto di dormire, ma non è la stanza per farlo. O meglio, io mi addormento subito ovunque, ma poi mi sveglio. Credo sia una difesa del subconscio contro gli incubi: prima che arrivino quelli duri mi scuote, non avendo ancora imparato che i peggiori sono quelli a occhi aperti. E così, alle due mi entra nelle orecchie il suono che più odio: il sibilare da serpente jet delle zanzare. Accendo la luce sul comodino e mi preparo alla caccia, ma quel che vedo sulle pareti mi scoraggia: posso uccidere un insetto, non questa colonia, questo non è l’hotel Millecolline, ma il Millezanzare. Sono a macchia sul muro, ovunque. Ronzano a grappoli intorno alla lampada, mi sfidano, mi hanno già trafitto. Il sangue è uscito in superficie sulla mia pelle. Ognuno ha il proprio tormento inconfessato. Quello del protagonista di 1984 erano i topi, e glieli calano a frotte sulla maschera di ferro che lo protegge, minacciandolo di toglierla. Il mio sono le zanzare. E riaffiorano in massa, mai così tante, in questa notte dopo i teschi, nella stanza 101. Facile dire: c’è una bella differenza tra un milione di morti, i topi a morderti la faccia e un nugolo di zanzare. Bisogna cercare l’origine delle cose, i collegamenti. Ero un bambino, dormivo in salotto, in un divano letto che sputava il materasso sollevando i braccioli. D’estate la stanza, che aveva le finestre aperte e la televisione accesa fino a poco prima, si riempiva di zanzare. Per non farmi pungere infilavo la testa nello spazio tra materasso e schienale e lì, tra sonno e veglia, mi trafiggeva un pensiero insostenibile: l’eternità. File su file su file di giorni che non sono più giorni perché il tempo non ha limiti e non finisce più, mai. Prendi il momento più bello: un gol di Savoldi, uno sguardo di Nadia del secondo banco, prendi il paradiso, moltiplicalo per sempre e non lo reggi più. Non mi spaventava la morte, a sette anni, mi terrorizzava l’eternità. La portavano le zanzare.
«Per qualunque necessità, chiami».
Potevo telefonare in portineria e chiedere che mi liberassero da quell’incubo, mi dessero un’altra camera dalle pareti bianche dove il tempo inciampasse nei limiti consueti? No. Si resiste. Questo era il posto dove ripararsi nel 1994, l’estremo rifugio. Altro non ebbero. Aspettarono. Soffrirono. Sopravvissero. Anche cento notti hanno la loro alba. Bisogna imparare dal dolore altrui.
Moise è un uomo, Paul vive a Bruxelles e la proprietà del Millecolline è passata dalla compagnia aerea Sabena (fallita) alla catena Kempisky. Al mattino chiudo la porta della 101, deposito la chiave sul banco di Sylvestre e vado, le rotelle del trolley come una scia rassicurante: andare è sempre salvarsi. Ho letto che secondo il filosofo Wittengstein «vivere in eterno è vivere nel presente» e questo lo posso affrontare. Al resto, penserò domani. E domani.