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 2015  ottobre 11 Domenica calendario

Sulla mostra di Monet a Torino

Il Museo d’Orsay di Parigi ha, nelle sue sterminate e preziose collezioni, qualcosa come settanta dipinti di Claude Monet. Oggi ne presta circa la metà alla mostra inaugurata alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino (a cura di Guy Cogeval, Xavier Rey e Virginia Bertone, catalogo Skira, fino al 31 gennaio 2016), ivi compresi alcuni celebri capolavori, che si poteva presumere fossero giudicati inamovibili, tanto essi fanno parte del patrimonio costitutivo del museo francese. È stupefacente, ad esempio, vedere fuori dalla sala che normalmente lo accoglie accanto al Déjeuner sur l‘ herbe di Manet (presentato con il titolo Le bain al Salon des Refusés del 1863), e accanto ad alcune delle fondamentali prove iniziali della nouvelle peinture nel settimo decennio dell’Ottocento, la Colazione sull’erba di Monet. Cioè la tela d’immense dimensioni che il pittore preparò fra ’65 e ’66, quasi sfidando i giganteschi teleri della pittura di storia che i suoi colleghi accademici sottoponevano con successo alle giurie del Salon ufficiale. E a imitazione delle analogamente grandi dimensioni dei due quadri capitali del realismo di Courbet – I funerali ad Ornans e L’Atelier – per inviarlo proprio al Salon di quell’anno. Senza averne, infine, il cuore: fors’anche per gli appunti mossigli da Courbet, che vi aveva in sostanza individuato un’ultima indecisione fra la tentazione alla sprezzatura che comportava il plein air – la pittura condotta all’aria aperta, secondo una prassi che continuava a dispiacere i più – e una più accurata e finita stesura del colore.
A quel primo lavoro, mal conservato da chi l’aveva avuto a garanzia di debiti contratti da Monet, il pittore restò sempre molto attaccato, tanto da imporre allo Stato francese il suo acquisto, quando sulla fine della sua lunga vita donò alla nazione la Grande Décoration, i dipinti delle Ninfee che furono poi allestiti all’Orangerie. Oltre alla Colazione, sono poi numerosi, a Torino, i capolavori: da La gazza, il dipinto che segna forse il primo, interamente consapevole e definitivo, scancellare il peso delle cose, sperse nella superficie dell’accecante biancore della neve; al ritratto di Madame Gaudibert, un quadro che sfida l’Accademia sul suo terreno, uscendone vincitore. E ancora, dalle Regate ad Argenteuil, del ’72, in cui giunge a un apice la ricerca sui riflessi delle barche e delle vele nell’acqua iniziata alla rotonda sulla Senna della Grenouillère nel ’69, a fianco di Renoir; a Les Dindons, il grande pannello decorativo presentato alla terza mostra impressionista del ’77; ai bellissimi quadri di Vétheuil, località dove Monet trascorse i primi suoi anni sereni e dove, con i magnifici dipinti sul disgelo del 1880, egli diede forse per la prima volta l’addio alla pratica radicale del plein air, cui d’ora in avanti farà seguire un lungo e paziente lavoro in studio.
Capolavori che, se non altro per il loro numero esiguo, non bastano naturalmente a fare di questa mostra un’esauriente antologica di Monet; che è d’altronde molto difficile oggi ordinare (anche per Parigi: e a tal proposito ricordiamo la mostra del Grand Palais del 2010, anch’essa manchevole del contributo essenziale del museo Marmottan, e dunque gravemente carente soprattutto degli anni più tardi di Monet), se non altro per il vastissimo arco della sua operosità: dai primi anni Sessanta dell’Ottocento fino all’anno della morte, il 1926. Una mostra però godibile: che sarebbe parsa perfetta a Lionello Venturi, il più importante fra i nostri studiosi dell’impressionismo, che predilesse sempre il periodo giovanile di Monet, giudicandone discutibili e solo decorativi gli anni maturi e tardi.