la Repubblica, 11 ottobre 2015
Sulla mostra di Henry Moore a Roma
ROMA.
Distesa come una di quelle “magnifiche” matrone dei sarcofaghi etruschi che, «in un sotterraneo scarsamente illuminato»,Henry Moore racconta di aver ammirato da ragazzo al British Museum, la Recling figure del 1953 immette lo spettatore nel cuore dell’arte del maestro inglese, al centro di una forma compatta eppure permeabile alla luce e al tempo, un piede nella natura e un altro nella storia: la luce che arriva dal giardino del museo nazionale romano penetra infatti nei fori («scolpire l’aria è possibile» per Moore) che hanno scavato la forma umana, rendendola essenziale e frammentaria come le panneggiate dive marmoree delle Terme di Diocleziano. Prestata dalla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, la Figura distesa è la sentinella della mostra che, superato il Ritratto di Henry Moore (1962)dell’amico Marino Marini, nella successiva, gigantesca aula termale dispiega circa 70 opere (per lo più della Tate di Londra, tanti e bellissimi i disegni) per spiegare il rapporto che lo scultore di Castleford, nello Yorkshire, ebbe con l’arte italiana (per l’ottima cura di Chris Stephens e Davide Colombo, l’esposizione è aperta fino al 10 gennaio; il catalogo, del formato di uno sketchbook, è edito da Electa).
Imperniata sul viaggio in Italia, la mostra – voluta dalla Soprintendenza archeologica di Roma, nella linea di una rinnovata contaminazione tra le opere classiche e la tradizione del moderno – è tuttavia un’antologica a tutti gli effetti. Sono passati novant’anni dal Grand Tour rivelatore che lo scultore intraprese a 27 anni lungo le stazioni classiche (Firenze, Roma, Venezia, ma anche Torino, Genova, Assisi) del Bel Paese. Nel 1925, otto anni dopo essere rimasto avvelenato dai gas sul campo di battaglia di Cambrai, l’ex fante di sua Maestà viene a respirare l’aria nuova, e antica al contempo, dell’arte mediterranea. Lui che si era innanzitutto mosso nella scia avanguardista del vorticismo di Jacob Epstein e si era abbeverato alla fonte del primitivismo azteco e maya nei musei londinesi, in Italia vede Giotto e i giotteschi, Masaccio e Donatello, Michelangelo. E ne rimane folgorato. Lo colpisce anche Giovanni Pisano. Perché, come spie- gherà nel 1969, Giovanni «si liberò dall’influenza del padre Nicola», rispetto al quale «andò più avanti» e «rese veramente libere le parti del corpo umano». «Penso – scrive Moore – che egli le conferisse (alla scultura, ndr) energia articolandola dall’interno». È lo scatto imperioso dell’arte gotica di Giovanni a toccarlo ora,mentre nella Donna in piedi, ricavata da un blocco di pietra di Portland,nel 1924 era ancora fermo alla fissità della scultura arcaica di una Kore. I passi successivi, oltre quella “esplorazione del moderno” che costituisce la prima delle cinque sezioni della mostra, portano però rapidamente, sotto l’influsso del dinamismo gotico e della prospettiva multipla delle avanguardie storiche, allo smembramento della forma.
Composizione in quattro pezzi ( Londra, Tate) fu scolpita nel 1934, facendo a pezzi un blocco di alabastro di Cumberland, anche sotto l’influsso di Picasso, punto di confronto costante ( Tre punte del 1939 sembra le fauci del cavallo di Guernica ). La scomposizione porta l’artista inglese, attratto anche dalla poetica surrealista, a scindere il capo dal seno, il busto dagli arti. Esposto davanti a un mosaico parietale che, raffigurante uno scheletro, nella stessa sala del museo funge da “memento mori”, questo corpo smembrato ha fatto pensare, come altri, al dramma della Grande Guerra vissuto da Moore. Tuttavia, l’opera definisce l’adesione alla visione simultanea che, figlia del cubismo e del futurismo, offre un riflesso più fedele della realtà. «In una scultura a tutto tondo non esistono due punti di vista identici – scriveva nello stesso 1934 l’artista, a nome anche degli altri componenti, quali Barbara Hepworth e Ben Nicholson, del gruppo “Unit One” –. La possibilità di realizzare una forma che esista appieno nello spazio – aggiungeva – è legata all’asimmetria».
Nate rispondendo al principio di «fedeltà alla materia» per cui «è necessario che l’artista agisca direttamente sul materiale, in un rapporto attivo con le sue qualità specifiche», le donne di Moore sono sfaccettate, erose dal segno della mano che, a volte, mima il vento che modella lentamente i sassi sulla riva, altre volte invece scava. Eppure sono madri monumentali, come le minuscole Veneri del Neolitico, anche nelle piccole dimensioni: ad esempio la Figura distesa drappeggiata: frammento ( cm 13x20x10) della Fondazione Il Bisonte per lo studio dell’arte grafica di Firenze. Il successo straordinario che questo figlio di un minatore ebbe in patria, è dovuto anche alla serie di carte in cui, nei tunnel della metro trasformati in rifugi antiaerei, sdraiò le afroditi del Partenone accanto ai londinesi terrorizzati dalle bombe della Luftwaffe. Ma è tutta l’opera grafica a colpire per varietà di tecniche e soluzioni compositive.
Nell’allestimento di Enrico Quell, alcune opere svelano il lato oscuro della dimensione felice espressa dalle madri col bambino (icone del Welfare State britannico) o dalle tante veneri bronzee che nei parchi inglesi si offrono all’abbraccio e al gioco dei bambini. Sono gli Elmetti degli anni ‘50 e l’Oggetto atomico del 1964. Soprattutto, del 1953, il figlio/falco che si avventa sul seno della madre per nutrirsi e sbranarla.