la Repubblica, 11 ottobre 2015
Ritratto di Jean-Michel Jarre, che a Mosca fece venire in piazza tre milioni e mezzo di persone (il più affollato concerto della storia)
MILANO.
Occhiali neri, camicia di jeans nera, maglietta nera, pantaloni neri, scarpe nere, giubbotto nero. Ordina un caffè. «È il sesto che bevo oggi». E sono solo le undici del mattino. Ma il viaggio da Parigi a Milano è iniziato presto. In ricercato look minimal chic e con un modo molto francese di essere sgualcito e al tempo stesso decisamente charmant, Jean Michel Jarre è uomo da record. A cominciare dal suo Oxygene (1977), uno degli album francesi più venduti di sempre. «E pensare che nessuna casa discografica lo volle: a pubblicarlo fu la piccola Disques Dreyfus, il proprietario era il marito di una mia amica». Vendette quindici milioni di copie in tutto il mondo (due in Francia), altri sessantacinque milioni sono i dischi (tra album e singoli) venduti durante tutta la sua carriera. Jarre occupa anche cinque posizioni su venti nel Guinness dei primati per i più grandi concerti della storia, con un difficilmente battibile primo posto per il live a Mosca del 1997 (tre milioni e mezzo di persone) e un terzo a Parigi per il bicentenario della Rivoluzione francese (due milioni e mezzo). Per lui i live sono come una performance di “land art”: «Da bambino ero ossessionato dal circo, da come trasformava i luoghi per una notte e questo è esattamente ciò che mi interessa fare con i concerti: dare una vita diversa a luoghi brutti come certe periferie o belli ma morti come i grattacieli». Ma soprattutto Jarre è uno dei pionieri della musica elettronica e tra i fondatori di generi come l’ambient, la new age, il synth pop e la trance. Ha suonato a Houston per il centocinquantesimo anniversario della Nasa, creato strumenti incredibili come una spettacolare, gigantesca arpa laser ed è stato forse il primo in assoluto a contaminare la musica elettronica con il mondo arabo nel 1988 con il disco Revolutions ma anche a lanciare provocazioni come l’album Music for Supermarkets realizzato in una sola copia venduta all’asta.
Eppure, dopo tanti anni nel mondo della musica, è ancora pieno di passione. Si arrabbia con i colossi della Silicon Valley. «Sfruttano i miei contenuti, i tuoi contenuti: la musica, il giornalismo, l’informazione, la scrittura, le foto, i video. Tutte queste cose non sono mai state così popolari nella storia, non hanno mai generato così tanti soldi. Non per gli autori, però, che non hanno mai guadagnato così poco». Ha in mente soluzioni: «Io sono presidente del Cisac, la Confederazione internazionale delle società di autori e compositori, un’associazione non profit nata proprio per difendere i diritti degli autori. Il valore di Spotify oggi è di diversi miliardi di dollari a Wall Street ma un artista in media ne ricava la cifra per comprarsi una pizza alla fine dell’anno. Siamo più forti di quello che pensiamo: i creatori di contenuti, uniti possono scuotere Wall Street. Quando succederà, vinceremo, non c’è dubbio. Dobbiamo fare le Nazioni Unite dei creatori di contenuti tra un anno, un mese, una settimana!».
La musica era da sempre inscritta nel suo destino. «Un’ossessione. Ho fatto studi classici ma avevo un insegnante di piano che rendevo pazzo perché non appena imparavo un brano volevo cambiarlo. Lui odiava questa mia attitudine e io lo odiavo perché lui mi impediva di suonare come volevo». Era già una sorta di ragazzo prodigio. «Tutt’altro. A sei anni avevo scritto sui muri della mia camera “Odio il piano, odio il mio insegnante di piano, odio tutto questo”. Poi le cose andarono meglio. Ho creato una rock band e un giorno il batterista mi disse: “dovresti incontrare uno che è un matto, si chiama Pierre Schaeffer”». E così nel 1969 Jean Michel Jarre entra nel suo Group de Recherches Musicales: finalmente la sperimentazione. «Mi ha cambiato la vita. Avevo trovato qualcuno che, come me, pensava che la musica non fosse fatta solo di note o solfeggio o armonia ma di suoni! Per me la differenza tra rumore e musica è l’intenzione del musicista. Schaeffer era un pioniere della ricerca elettroacustica, inventò tutto: il sound processing, il sound design. Prima dovevi limitarti ai suoni creati da strumenti costruiti dall’uomo e suonati da un’orchestra, e al massimo mixare timbri e texture già esistenti, ma adesso potevi basare la tua musica su tutti i suoni dell’universo». Schaeffer è considerato il creatore della “musica concreta”. «Sì, è da lì che si arriva all’elettronica – probabilmente il genere più popolare oggi nel mondo. E viene dall’Europa: Russolo in Italia, Pier Schaeffer e Pierre Henry in Francia, Stockausen in Germania non hanno niente a che vedere con la musica americana, con il jazz, il blues e il rock. La musica concreta deriva dalla trazione musicale classica: lunghi pezzi strumentali che non hanno il formato della canzone pop anche se volendo possono diventarlo».
Jarre è anche considerato il padre della cosiddetta “ambient music”. Insieme a Brian Eno, giusto? «Quando io ho iniziato a suonare Brian Eno non aveva nulla a che fare con l’elettronica; era nella scena rock pop con i Roxy Music. Arrivò molto più tardi facendo cose su cui nell’Europa continentale si lavorava da almeno vent’anni. Eno esiste perché prima ci siamo stati noi, ma è sempre stato molto bravo a mettere delle parole per vendere concetti che esistevano già». Il suo accento francese a questo punto sembra essere più calcato. «Non voglio dare lezioni a nessuno né intellettualizzare troppo la cosa, ma anche il progetto in cui sono impegnato adesso, Electronica 1: The Time Machine, nasce proprio da qui: festeggiare con artisti da cui sono stato ispirato o che sono stati ispirati da me e che rappresentano due decadi di musica elettronica. Da Boys Noize, un ragazzo che viene dalla scena techno di Berlino, fino ai Tangerine Dream e agli Air». Ma anche Laurie Anderson, Moby, Massive Attack, Vince Clark (Depeche Mode) e persino Pete Townshend, il pianista Lang Lang e il regista e compositore John Carpenter. «E infatti seguirà un Volume 2 con altrettanti nomi, tra cui quelli di Gary Numan e David Lynch – lo so non dovrei dirlo, pazienza. Non sono semplici featuring, come va di moda adesso, con ognuno di loro ci siamo incontrati fisicamente, abbiamo parlato e suonato. È stato come un viaggio iniziatico incontrare tutte queste persone».
Anche il padre di Jean Michel Jarre era un famosissimo compositore. «I miei genitori si sono lasciati quando io avevo cinque anni. Ho sentito molto la sua mancanza. Sono venuti a mancare entrambi cinque anni fa, e adesso non ho più risentimenti. Mio nonno mi ha fatto da padre e mi ha sicuramente influenzato. Suonava l’oboe ed era anche un inventore: ha creato uno dei primi giradischi con lo speaker incorporato e una delle prime consolle per mixare».
Altro capitolo, le donne. Bellissime. Charlotte Rampling, per esempio.
«Sono solito dire di aver sposato la mia fantasia. Ero nel Sud della Francia per riposarmi e attraverso un amico avevo saputo che anche lei stava lì: l’ho invitata a cena e da quel momento siamo stati insieme. È un’attrice e una donna straordinaria. Abbiamo tre figli e anche se siamo separati siamo rimasti molto vicini: è la ex-moglie della mia vita». E Anne Parillaud? «Ho appena divorziato anche da lei. È stata una delle peggiori esperienze che mi siano mai capitate. Credo che farò una pausa con le attrici». Sì, pausa. Fuori le campane battono il mezzogiorno, Jarre si alza dalla poltrona per andare ad addentare un tramezzino. Meglio parlare di musica: «Il momento più bello della mia vita da artista è stato il mio primo concerto a Parigi, in Place de la Concorde, 1979. Fu una cosa completamente inaspettata: quando col tour manager andammo sul palco, verso il tramonto, in direzione Champs-Élysées, vedemmo un’area tutta nera. Pensavamo che fosse un riflesso, poco dopo ci rendemmo conto che era la folla. Eppure la cosa era nata con un progetto underground, non c’era stata promozione in tv o alla radio, solo un passaparola. Alla fine c’erano un milione di persone. Persino Charlotte rimase bloccata dalla folla. Riuscì ad arrivare solamente passando sottoterra, attraverso le catacombe. Dopo il concerto venne uno strano tipo dietro il palco, aveva una barba lunghissima, sembrava Fidel Castro, e mi disse: “Hey man, non ho mai visto niente del genere”. “Sai chi era quel tipo?” mi chiese poi il manager. Non ne avevo idea. “Beh, era Mick Jagger”. Mi ci volle quasi un anno per riprendermi».