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 2015  ottobre 11 Domenica calendario

Philippe Petit, l’uomo che cammina sul filo. «La creatività è il crimine perfetto»

«Il momento più importante fu quando iniziai a camminare. Quello era il punto di non ritorno, l’inizio della “passeggiata”, l’istante che aspettavo da sei anni e mezzo». Gli occhi di Philippe Petit sembrano illuminarsi quando, seduto nella hall del Bowery Hotel, ricorda quella mattina di un’estate lontana (era il 7 agosto 1974, di lì a pochi giorni avrebbe compiuto venticinque anni) in cui realizzò quello che sembrava un sogno impossibile, un’impresa ai confini della realtà. Lui lo chiama «le coup» ma è passato alla storia come «the Walk». Colpo (del secolo) o passeggiata (con la maiuscola) che sia, fu un evento straordinario e irripetibile. Per tre quarti d’ora Philippe camminò avanti e indietro (otto volte in totale) su un cavo sospeso a quattrocento metri d’altezza tra la torre sud e quella nord, le famose Twin Towers di New York rase al suolo ventisette anni più tardi dai terroristi di Al Qaeda. E oggi, a distanza di quarantuno anni, quella storia è diventa una grande fiction in 3D – The Walk, appunto – firmata dal regista Robert Zemeckis (in Italia l’anteprima del film è in programma alla Festa del Cinema di Roma il 19 ottobre).
Cosa le torna in mente ripensando a quella mattina?
«Mi vengono in mente moltissime cose, dipende cosa voglio ricordare. La “passeggiata” fu il risultato di sei anni di sogni e di preparazione – vivevo ancora in Francia – poi gli otto mesi di lavoro a New York, la corsa contro il tempo, le strategie, le bugie e i trucchi per portare e nascondere gli attrezzi in cima alle torri. Una grande avventura. Di quella mattina all’alba ricordo praticamente tutto».
Come ha fatto a diventare l’uomo che cammina su un filo? «Ci sono volute diverse fasi, e nella prima ero ancora un bambino. Iniziai a sei anni a provare i giochi di prestigio, ero affascinato dai trucchi dei maghi. Allora non c’erano video o internet, ho imparato tutto da solo, grazie a un libro che mi feci regalare dai miei genitori per Natale».
Davvero non ha avuto alcun maestro?
«A quell’età no, come tutti i bimbi avrò visto qualche mago in azione. La cosa che ricordo con precisione è la vetrina di un negozio e una grande scatola per fare le magie. Chiesi a mia nonna di regalarmela, anche quello fu un regalo di Natale. Grazie a quella scatola magica ho imparato le manipolazioni, l’uso delle dita, i primi trucchi».
La seconda fase?
«Inizia a quattordici anni. Ho imparato a fare il giocoliere, fu il diretto risultato – e viceversa – della passione per la magia e i trucchi dei prestigiatori. Facendo il giocoliere sviluppi la sensibilità delle mani, impari a bilanciare i gesti, a muovere con grande equilibrio il tuo corpo. Ero sempre autodidatta, ma ho iniziato ad andare spesso al circo o a teatro, per rubare i trucchi degli altri. Così ho imparato l’arte di camminare sul filo, che già da piccolo mi affascinava molto. Provavo a camminare sui rami degli alberi, in bilico sulle pietre, è stato un processo naturale».
Quando è finito?
«A sedici anni, terza e ultima fase. Ho imparato a camminare sulle corde o sul filo da solo. Da allora non ho più smesso».
È vero che era un pessimo studente?
«Verissimo. Non mi piaceva studiare, i miei genitori mi hanno cambiato diverse scuole, sono stato anche espulso da un paio di istituti. Ero troppo preso dai giochi, dai passatempi, dalle magie. E dal desiderio di camminare su un filo».
Con i suoi compagni come andava?
«Tra loro ero molto popolare, ero bravissimo a borseggiare, si divertivano come pazzi quando facevo sparire l’orologio dal polso di un insegnante o altri trucchetti in classe».
Ha paragonato il borseggio a un’arte.
«Esatto, uno dei miei ultimi libri, pubblicato per ora solo in Francia, si chiama proprio L’arte del borseggio.
È un bellissimo libro illustrato, ho raccolto disegni, foto e illustrazioni sul borseggio fin da quando avevo quindici anni, ne ho una grandissima collezione».
E pensa che l’artista sia anche una sorta di criminale, giusto?
«È vero, ed è l’argomento del mio ultimo libro (Creatività, il crimine perfetto, in Italia per Ponte alle Grazie, ndr ). Non parlo tanto di illegalità, quanto di ribellione, io ho passato la mia vita a modellare questo spirito ribelle, era l’unico modo per fare quello che ho fatto. Mi piace violare le regole, anche le mie, quelle che mi impongo».
A sessantasei anni è ancora un ribelle?
«Penso di sì. Non ho concesso quasi nulla al “commercio” della mia arte, non mi interessano i soldi, non ho ancora quella che nello show-business è definita come carriera, non ho un team di consiglieri, pubblicitari, uffici stampa, lavoro soltanto con Kathy, la mia partner che mi fa da producer, mi sento ancora uno spirito libero, il giocoliere di strada illegale».
La sua storia adesso è diventata grande cinema. Cosa pensa del film di Zemeckis?
«Il film è bello, mi ci riconosco, anche se ovviamente non è il mio film come non lo era il documentario che vinse l’Oscar nel 2009 ( Man On Wire, ndr ) dove c’erano diverse cose su cui non ero d’accordo».
Di questo non le è piaciuto qualcosa?
«Dopo averlo visto due volte devo dire che è fatto veramente bene, e poi c’è questo attore straordi-
nario che mi interpreta (Joseph Gordon-Levitt,
ndr ): io gli ho insegnato come si cammina su un filo, ma lui ha imparato benissimo. Fra l’altro parla perfettamente il francese e rende molto bene il mio accento quando invece parlo in inglese. Nella scena-madre, quando inizio a camminare tra le Twin Towers, il regista è stato straordinario: mostra esattamente quello che ho fatto e grazie alla tecnologia lo spettatore sembra davvero che stia accanto a me sul filo».
Quindi, neppure una critica?
«Ci sono solo pochi dettagli in cui non mi riconosco, ma li accetto perché fanno parte del lavoro del regista, del suo modo di raccontare una storia».
Quali sono?
«Per esempio ha unificato in un solo personaggio quelle che nella realtà sono tre diverse persone. Oppure quando durante la passeggiata la corda vibra e sembra che io sia sul punto di cadere».
Non è vero?
«No, ero in perfetto equilibrio, il cavo era ben teso. Ma capisco perfettamente anche questo, Zemeckis in quel momento del suo racconto aveva bisogno di un po’ di suspense hollywoodiana».
Ha mai avuto paura?
«Nella vita a terra sì, ho un sacco di paure. Quando sono in cielo no, la paura c’è quando manca il controllo, la conoscenza. Prima di salire su un filo io ho imparato tutto quello che succede da un punto di vista tecnico. Sempre meglio non guardare di sotto però».
È stato definito funambolo, giocoliere, artista, uomo da circo, genio. Lei come si autodefinisce?
«Un artigiano, un appassionato artigiano. Mi piace costruire cose, mettere il mio corpo in azione, scolpire il mio destino, trovare i miei limiti. In questo senso non mi considero un camminatore sul filo ma una sorta di regista teatrale che ha come palcoscenico il cielo».
È vero che sta costruendo un fienile a Catskill, accanto alla casa in cui vive, nella campagna a nord di New York?
«Un piccolo fienile, sì. L’ho iniziato da diversi anni e ho deciso di usare gli attrezzi e i metodi che si usavano a metà dell’Ottocento, quello che in inglese si chiama timber framing (intelaiature tutte in legno a incastro, ndr ). Non avevo mai costruito nulla prima, ho iniziato a leggere libri sulla costruzione e mi è capitato un libro sui metodi usati a quell’epoca. E visto che mi ritengo un artigiano e mi piace l’approccio manuale…».
Continua ad allenarsi?
«Tre ore al giorno, l’attività fisica è molto importante e oggi, a sessantasei anni, mi sembra di avere raggiunto il top».
Philippe Petit avrà mai un erede?
«Lo spero, amo insegnare, e mi dicono che sono anche un bravo maestro. Ho fatto dei workshop a Brooklyn, solo sei studenti, divisi in tre gruppi per due giorni di lavoro. Ogni tanto vado a insegnare nei circhi, mi piace creare spettacoli teatrali».
Ha qualcosa in cartellone?
«Un one man show in un piccolo teatro ma con un grande successo. È un work in progress in cui faccio di tutto: giocoliere, mago, attore...».
E il filo?
«Per ora lo spettacolo è wireless, ma l’impresario mi ha già detto di metterlo in conto: in fondo è quello che vuol vedere il pubblico».
La prossima impresa? Ci sarà un altro “coup”?
«Sa cosa? Mi piacerebbe fare una passeggiata nel cielo dell’Isola di Pasqua. È molto tempo che ci penso e so che devo ancora lavorarci molto. Ma prima o poi la farò».

Alberto Flores d’Arcais

L’uomo che riempie i vuoti con chilometri di Bellezza
A CHE COSA SERVE UN’AURORA BOREALE? A niente. E allora perché così tante persone si affaticano (spostandosi, spendendo, restando sveglie) pur di vederne una, pur di conservare dentro di sé il ricordo di qualcosa che è unico, che esce da ogni canone o regola? È la bellezza, bellezza. Non è che serva: semplicemente, è indispensabile. Fa respirare. L’arte è ossigeno, chi la produce dà fiato anche a te, digli di continuare. Uno di quelli che lo fanno si chiama Philippe Petit. Ha scelto un modo raro per riuscirci: è diventato un funambolo. Ha percorso sul filo una distanza pari alla circonferenza della Terra. Di quei quarantamila chilometri ce ne ha regalati un paio, forse meno.
Trentanovemilanovecentonovantotto chilometri (anche il numero è lungo, come un cavo teso) di allenamento sono serviti per quei due scarsi in cui ha attraversato il vuoto tra due guglie o due torri riempiendolo di meraviglia. Noi abbiamo visto quello 0,005 per cento, lui conosce tutto il resto. Predica la gioia alla luce del sole, coltiva la sofferenza al riparo dagli sguardi. Petit è un uomo strano, un cartone animato di quelli disneyani, prima che la Pixar li tormentasse con la psicologia. Crede nell’impossibile con più fiducia che fede. È pre-fanciullesco e post-anziano. Se gli chiedi che cosa fa veramente ti risponde: collego cose. Vede tratti, corridoi, opportunità che agli altri sfuggono, ma mica per questo non esistono. È un esibizionista provato dai fatti e dalla vita. Riesce a trovare l’universo in un nodo, a rispettare una corda, cambiare significato alla parola illegalità. Ora che il tempo si frappone alle sue passeggiate sul nulla, scrive, parla, vive, con la stessa improbabile arte. A tratti, senza preavviso, splende, indispensabile come un’aurora boreale.
Gabriele Romagnoli