Corriere della Sera, 11 ottobre 2015
Sull’attentato in Turchia (quasi cento morti) vedi anche Il Fatto del Giorno. Qui di seguito la cronaca di Andrea Nicastro
DAL NOSTRO INVIATO ANKARA «Questa è una strada insanguinata, questa è una strada insanguinata» cantavamo. Pensavamo alla politica del governo, ai trucchi e al doppio gioco, ma poi il sangue è arrivato davvero, dappertutto, il nostro». Lui era lì, nella piazza della stazione di Ankara, quando sono scoppiate le bombe della peggior strage della storia della Turchia repubblicana. Ballava per un Paese diverso, pacificato, allegro e ora si guarda quel graffio sull’avambraccio mentre quasi 100 giovani come lui sono morti. Fatih Kalko, 22 anni, studente di architettura, non ha dubbi. Lo pensava e lo cantava prima delle esplosioni e ne è ancora più convinto adesso, anche questa è una strage di Stato. «La responsabilità è del governo, della sua politica segreta per mettere i turchi gli uni contro gli altri».
Il futuro architetto piange, si accalora, l’adrenalina circola ancora a litri. Ma ricorda tutto fin nei dettagli. «Era molto presto, il corteo doveva partire a mezzogiorno, quando sono arrivati gli amplificatori per il comizio e una ragazza ha avuto l’idea di tirar fuori il suo iPod. “Riesci ad attaccarlo?”. Ci siamo messi in cerchio e giravamo saltando. Sembrava una festa, c’era il sole, sempre più gente si aggiungeva, il cerchio si allargava e neppure un poliziotto a disturbarci». Alle 10 l’esplosione. Pochi secondi dopo la seconda. Quasi 100 morti e 400 feriti secondo gli ospedali. Probabilmente opera di kamikaze, dice il ministero dell’Interno. «Mi sono ritrovato a terra – continua Fatih —. Non so se mi sono buttato o se è stato lo spostamento d’aria. Ho avuto paura ad aprire gli occhi, sentivo degli odori strani e stavo con le mani tra i capelli. Quando ho alzato la testa ho cominciato anche a sentire le urla. C’era gente insanguinata, in piedi, seduta, accasciata. Molti erano già scappati, altri arrivavano. Il terrore era che potesse spaccarsi il mondo un’altra volta».
«Ho cercato anch’io di aiutare. Ancora adesso non so se i miei amici sono tutti vivi. Ho provato a chiamare l’ambulanza, ma le linee non funzionavano, allora ho corso per trovare un’auto. Ho visto pezzi umani e, a un certo punto, nettissimo, ho sentito l’odore della carne bruciata. È stato terribile. I tassisti della stazione dei treni hanno fatto più delle ambulanze. Poi, quando è arrivata la polizia, ha bloccato il traffico, ha impedito alla gente di andare in ospedale. È stato pazzesco».
La piazza della più grande stazione ferroviaria turca è ancora in parte cordonata. Il palazzetto dello sport chiuso. A terra ci sono ancora i frammenti dei vetri caduti dai palazzi e la polizia lavora alla luce delle fotocellule.
Internet e i social network hanno ripreso a funzionare dopo il blackout ordinato dal governo. I media sono stati avvertiti: non verrà tollerato chi diffonderà immagini o storie che possano generare il panico nella popolazione.
Il premier turco Ahmet Davutoglu parla dell’episodio «più doloroso della storia repubblicana» e indica i terroristi curdi o lo Stato Islamico (che la Turchia ha appena cominciato ad ostacolare con un po’ più di decisione) come principali sospetti. Il presidente Recep Tayyip Erdogan dice che si tratta di un attacco «all’unità e alla pace» del Paese e che la «migliore risposta è la solidarietà e la determinazione che mostreremo». La manifestazione di ieri aveva il cappello della sinistra filo-curda del partito Hdp che è emerso sin dalle elezioni del giugno scorso come il rivale più scomodo del lungo dominio della formazione del presidente Erdogan. È stato l’inaspettato superamento del 10% a permettere all’Hdp di ostacolare l’ennesimo monocolore di Erdogan costringendolo a fissare elezioni anticipate per il primo novembre. Accanto all’Hdp, però, si è schierata buona parte della società civile turca, la parte più laica e filo-occidentale. La manifestazione di ieri contro l’offensiva militare che ha ripreso a bombardare le posizioni curde nel Sud-est del Paese come in Iraq e in Siria aveva l’adesione di associazioni di avvocati, giornalisti, ingegneri, architetti. Selahattin Demirtas, leader della sinistra filo-curda, è stato tagliente: «Siamo di fronte ad uno Stato assassino. Come è possibile che con una intelligence tanto forte, le autorità non avessero allarmi su attentati? Non c’era un solo agente sulla piazza». Per lui non ci sono dubbi e questo è solo il terzo attentato contro la sua formazione dopo quelli di Dyarbakir (il 7 giugno ad un suo comizio) e quello del 20 luglio a Suruc dove un gruppo di 36 pacifisti curdi è stato massacrato da un kamikaze.
Come Demirtas pensavano anche le migliaia di manifestanti che a Istanbul e in decine di altre città sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del presidente. Cortei piccoli e pacifici, ma con slogan rumorosissimi: «Erdogan assassino. Erdogan dimettiti».