La Stampa, 10 ottobre 2015
Parla Fabio Fazio. «Se mi fanno una foto quando porto i figli a scuola, mi imbarazzo». La valletta del Rischiatutto (da febbraio) cambierà ogni settimana ma si chiamerà sempre Sabina
Che tempo che passa: Che tempo che fa è alla tredicesima stagione (partì il 13 settembre 2003) e Fabio Fazio non nasconde che un po’ di stanchezza c’è: «Sono stanco? Certo che sì – dice – ma non si può fermare a cuor leggero una macchina che macina ascolti e rende alla Rai, come leggo sui giornali, 50 mila euro per 15 secondi di spot. Sarebbe irresponsabile, sbagliato. Cerco nuovo vigore cambiando: parallelamente alla liturgia domenicale, con le tre interviste che consentono un racconto lungo (domani ospiti il premier Renzi, lo scrittore Michele Serra e il teologo della liberazione Leonardo Boff, ndr), il sabato mi gioco la carta del rinnovamento».
«Che fuori tempo che fa»: in che senso è nuovo?
«Perché è un tavolo. Con me c’è Massimo Gramellini e ci sono persone diverse, su cui cerco di sapere tutto ciò che è possibile sapere, che ascolto e coinvolgo nella conversazione: si tratta di usare gli argomenti e le persone come strumenti musicali e avere molte sezioni; di far stare tutto in un tempo esiguo per dare una sensazione di bella sonata piena. Non lo facevo dai tempi di Quelli che il calcio».
Stasera c’è la terza puntata, con i tre di «Suburra» (Favino, Germano e Amendola), più Isabella Rossellini, Fabio Volo, Nino Frassica e naturalmente Gramellini: gli ascolti sono in crescita, ma a volte si vorrebbe ascoltare di più le persone...
«È vero, il programma avrebbe bisogno di un tempo più lungo, siamo ancora in fase sperimentale».
Ci pensava da tempo?
«Sì, guardo molta tv francese, lì il tavolo è spesso al centro della scena. Da noi il gusto della conversazione si è perso, è dai tempi di Costanzo che non c’è più. Del resto, quando ho cominciato Che tempo che fa il talk show one-to-one non lo faceva nessuno, ora siamo arrivati a 910 puntate. L’unico pregio che mi riconosco è che amo cambiare: facevo Quelli che il calcio e ho fatto Anima mia, Vieni via con me mentre c’era Che tempo che fa, ho imparato a usare una trasmissione di successo come scudo per proteggere le altre. Dopodiché, sono anche quello che ha fatto il secondo Sanremo, che è andato male anche perché abbiamo commesso l’errore grande di farlo troppo simile al primo. Ma lì la ragione è stato il mio provincialismo: hai una vita sola, ti propongono Sanremo e dici di no? Impensabile».
Al secondo Sanremo lei e Luciana Littizzetto dicevate che i dati andavano interpretati, e che la tv generalista era alla vigilia di una rivoluzione. Che non abbiamo ancora visto, però.
«Come no? Qualche anno fa, su cento telespettatori, 75 guardavano reti generaliste, oggi siamo al 55/45, tra poco arriva Netflix e potremmo arrivare al 50/50. La sfida oggi è costruire prodotti che siano fruibili su tutte le piattaforme, che facciano concorrenza ai nuovi vettori, non ai vecchi. Non è più tre contro tre, non capisco perché uno dovrebbe fermarsi con il telecomando al numero nove. I miei figli non lo fanno».
Considerando che ha cominciato giovanissimo, potrà dire di avere attraversato almeno tre ere geologiche della tv...
«Ho iniziato che non avevo neppure 19 anni: trent’anni fa, tanto quanto ci separava allora dall’inizio delle trasmissioni tv in Italia. Mi sento nel mezzo di tutto: allora lavoravo con Enrico Vaime, Guido Sacerdote, Luciano Salce, Bruno Voglino, ho vissuto un racconto che non mi apparteneva generazionalmente, ho ascoltato una grammatica televisiva e del gusto, del linguaggio, oggi totalmente estinta. Ho imparato soprattutto che cosa in tv non si deve fare. E poi ovviamente, come tutti quelli della mia generazione parlo la lingua televisiva di Arbore».
Ma, come Maurizio Costanzo, la vedremo in video per sempre?
«Una volta c’era il vezzo di dire: smetto e vado in campagna. Ma in campagna mi annoio. Quando smetto, smetto sul serio. Però non è una questione all’ordine del giorno».
Il video è una droga?
«Adesso proprio no, può esserlo a vent’anni, ora se porto mio figlio a scuola e qualcuno mi fa una foto col telefonino mi sento a disagio. Questo gigantesco Truman Show in cui viviamo non mi piace: quando facevamo le medie le ragazze chiudevano il diario con un lucchetto per proteggere i segreti, oggi il diario è esibito. È radicalmente cambiata la concezione di sé, viviamo in una sorta di comunismo planetario in cui c’è una reificazione di sé molto evidente. E impressionante».
Ma uno che la pensa così come è finito a fare la televisione?
«Facevo la radio, facevo le imitazioni, e questa era la mia medicina per vincere una timidezza di proporzioni gigantesche. Il destino ha scelto per me la televisione, ma non avevo messo in conto di farcela, la mia ambizione era fare il giornalista nella redazione locale de La Stampa o del Secolo XIX. Volevo solo vedere dal di dentro gli studi della Rai. Oggi sarebbe un po’ come andare a visitare la stazione spaziale».
«Rischiatutto» si farà?
«Sì, e sarà filologico. Abbiamo selezionato 1.400 possibili concorrenti. È previsto per metà febbraio, noi siamo pronti. Lanceremo il concorso per la valletta, che cambierà ogni settimana, a un’unica condizione: che si chiami Sabina».