la Repubblica, 10 ottobre 2015
Ritratto di Matteo De Vincenzo, bravo ragazzo della moda
«MAI SUBITO il fascino dei talenti maledetti. E non provoco neanche. I miei amici mi prendevano in giro: “Datti un tono”, così ho provato a diventare rock. Di quei tentativi maldestri (capelli tinti, chiodo, pantaloni skinny) restano solo vecchie foto che guardo solo io». Scherza con un lieve accento siciliano Matteo De Vincenzo, il “bravo ragazzo” della moda si presenta in jeans, maglietta blu e una buona dose di autoironia. Anche la sua carriera è stata lineare, da primo della classe: nato a Messina nel ‘78, appena diplomato in Moda e Costume all’Istituto Europeo di Design, viene subito preso nell’ufficio stile di Fendi dove si occupa tutt’ora di accessori a fianco di Silvia Venturini Fendi («Devo tutto a quel luogo, la mia esperienza me la sono fatta lì»). Nel 2009, in parallelo, lancia una linea di abbigliamento a suo nome della quale LVMH acquisisce nel 2014 il 45 per cento. Con la sicurezza economica e i canali distributivi che un colosso del genere comporta non è difficile prevedere un futuro luminoso. «Il sistema moda italiano non aiuta i giovani senza mezzi com’ero io, anzi spesso li abbandona. Ora invece potrò liberarmi di tutti i problemi organizzativi e concentrarmi solo sulla creatività».
Il suo “minimalismo decorativo”, le sue geometrie, e l’uso spregiudicato dei materiali hanno conquistato la stampa estera; nel 2014 Women’s Wear Daily l’ha nominato fra i 10 talenti di domani: «Mi spiace dirlo, ma i primi a notarmi e incoraggiarmi sono stati i giornalisti stranieri. Anna Wintour in testa. Diceva che c’era tutta una nuova generazione di stilisti italiani che non venivano presi sul serio. Oggi mi auguro che si riesca a creare un gruppo forte come negli anni 80. Abbiamo personalità diverse e ben definite. Molti sono amici. E poi in questo momento c’è posto anche per i piccoli, si sente il desiderio di una moda meno globalizzata, di qualcosa di nuovo». Dalla sua Sicilia ha assorbito il gusto per il colore: «Amo il miscuglio di tinte diverse che insieme creano un’armonia, mi fanno pensare a certi pavimenti di Noto». Ammette una vena nostalgica Marco De Vincenzo, apprezza l’effervescenza rivoluzionaria dei 60, ha una casa poco design e confessa una passione per Bruno Lauzi, Lucio Dalla, Franco Battiato. Che controbilancia con l’ascolto «di tanta elettronica» come a volersi scrollare di dosso una possibile patina di normalità rétro. Tradotto in stile però l’ispirazione è tutt’altro che passatista: «Tanti smontano gli abiti vintage per copiarli, citano un’epoca alla lettera. Io no. Detesto l’impressione di già visto. Ho bisogno di cambiare e di emozionarmi ogni volta. I giovani devono fare i giovani, innovare». Un cappotto della collezione estiva 2016 sintetizza la filosofia De Vincenzo: tante nuance – dal giallo al rosso fino al nero – ricerca, forme essenziali, eleganza mai banale. La base è un tessuto plissettato, su ogni piega è stata cucita una frangia laserata che vibra a ogni passo. «L’effetto è materico e insieme leggerissimo. Un bel risultato perché venendo dagli accessori penso in 3d, ma nessuna donna ha voglia di pesi massimi sulle spalle».
I materiali borderline lo affascinano: le sue stampe hanno la tridimensionalità di un ricamo. La pelle fustellata chirurgicamente dalle tranciatrici diventa impalpabile come seta: «Giro per l’Italia alla ricerca delle fabbriche più sperdute; a volte sembrano abbandonate ma sui loro tavoli scopri sempre tessuti meravigliosi. È proprio da quei ritagli che nasce – nella confusione e in solitudine – il mio processo creativo».