Corriere della Sera, 10 ottobre 2015
Ho bevuto il tè nella cucina del premio Nobel Svetlana Aleksievich, e adesso la intervisto
I l giorno dopo, Svetlana Aleksievich non si è ancora ripresa dalla notizia, dalle centinaia di telefonate da tutto il mondo, dalla gente felice fino alle lacrime radunatasi sotto casa sua a Minsk. Quando mi risponde al telefono è sulla porta, con un taxi in strada che l’aspetta e muore dalla voglia di liquidarmi in pochi secondi. Mi salva solo il fatto che la conosco da anni e che abbiamo bevuto assieme il tè nella cucina del suo appartamentino, come si usa da queste parti.
Sento che ha l’affanno. Si è ripresa dalla giornata campale seguita all’annuncio del premio Nobel?
«Qui all’ingresso c’è già una pila enorme di lettere, ne ho viste solo alcune. È la gente che mi ha colpito; come ha accolto questo evento, l’ammirazione. E non tanto per me, quanto per la cosa in sé. Ieri non immaginavo certo che in un batter d’occhio si potessero radunare tante persone, gente comune che si abbracciava, si baciava, piangeva. È stata un’impressione fortissima».
Se lo aspettava questo riconoscimento?
«Devo dire di no. Sono troppo grandi le ombre di personaggi come Pasternak e Ivan Bunin, il primo russo ad aver ottenuto il Nobel. Molti ne parlavano attorno a me, ma non me lo immaginavo concretamente. No, no. Forse, che un giorno, magari, ci sarebbe stato qualcosa, ma mi sembrava improbabile».
Il suo premio Nobel è importante per tutta l’area russofona. Avrà certamente delle conseguenze, anche perché lei è tornata a vivere in Bielorussia.
«Ma in realtà non sono mai andata via. Desideravo vivere in mezzo alle persone di cui scrivo e certamente non credevo che in Russia potessero succedere tutte queste cose».
Credeva che la strada imboccata fosse un’altra?
«Pensavamo che fosse questione di tempo, che dipendesse solo da Lukashenko, e invece tutto ha assunto dimensioni tali da diventare chiaro che non c’entrava solo Lukashenko ma che si tratta in generale di una qualche sindrome post-socialista. Sentivo già quando stavo scrivendo l’ultimo libro che questo uomo russo ingannato e depredato avrebbe gettato il guanto di sfida, avrebbe chiesto la rivincita; ma non credevo che si sarebbe opposto al mondo intero. Per tutti noi, gente della perestrojka, è stata una catastrofe. Lo ripeto, volevo vivere tra la mia gente: mentre non c’ero erano morti i miei genitori, la mia nipotina stava crescendo senza di me. Volevo in qualche modo essere a casa».
Domani si vota in Bielorussia e l’Europa dice che se la consultazione sarà regolare toglierà le sanzioni. Ma molti sperano di liberarsi invece del presidente attuale. Non pensa che senza Lukashenko ci potrebbe essere il rischio del caos, come in Ucraina, in Libia?
«Sa, ora non mi azzardo più a dire che questo non succederà. Oggi prevedere il futuro è cosa ingrata, ed è impossibile perché la situazione economica sta peggiorando, Lukashenko ancora riesce a tenere tutto in mano. Che piega prenderanno gli avvenimenti non saprei prevedere».
Ma l’autoritarismo deve cessare comunque?
«Ovvio, su questo non c’è dubbio. Purtroppo alle presidenziali penso che lui vincerà. I voti si conteranno e tutto sarà come dirà lui, non c’è da dubitarne».
Il portavoce di Putin ha detto che i suoi giudizi sull’Ucraina sono dovuti a una scarsa informazione sugli «sviluppi positivi».
«Non è vero. Io recentemente sono stata lì, ho visto tutto con i miei occhi, ho parlato con decine di persone, anche con i profughi. Lui fa male a pensare così».
E la Siria?
«Mi sembra che la Russia si sia invischiata in un’ennesima avventura di proporzioni tali... Certamente quel blitzkrieg che non è riuscito in Ucraina bisognava superarlo, coprirlo con qualche cosa».
Lei sta scrivendo contemporaneamente due nuovi libri, uno sull’amore e l’altro sulla vecchiaia. Ma che cosa sono per lei?
«È difficile dirlo. Penso che siano le cose principali nella vita, l’amore e l’andarsene, lo smorzarsi della vita e come vivere con dignità questa parte della vita. Come ha detto una delle eroine dei miei libri: anche la vecchiaia è follemente interessante».
Cosa dirà alla cerimonia a Stoccolma?
«Ci sto pensando. Direi così: parlerò del povero e terribile uomo rosso, di come lui si sta estinguendo con dolore e sangue e come, forse, provocherà ancora molto sangue».
L’uomo rosso è l’uomo sovietico?
«Sì, sovietico. Penso che Varlam Shalamov avesse ragione quando diceva che il lager perverte sia il boia che la vittima».