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 2015  ottobre 10 Sabato calendario

Approvati tutti gli articoli della riforma del Senato. Manca ancora un voto e la riforma potrà tornare alla Camera

ROMA Martedì alle 15 la riforma che cancella il bicameralismo paritario supererà il passaggio più duro al Senato e, dunque, con un po’ di preavviso, il presidente del Consiglio può prendersi la sua rivincita: «Dicevano “le riforme si fermeranno, il governo non ha i numeri”....Visto come è andata? La maggioranza ha fatto un capolavoro al Senato», scrive Matteo Renzi ai lettori dell’ Unità.
Il ministro Maria Elena Boschi (che ieri ha trascorso altre 10 ore in aula la Senato per seguire le votazioni degli ultimi articoli) preferisce un profilo basso: «Brindare all’approvazione della riforma? No, per ora mi concedo solo un’aranciata...», ha detto a una senatrice incontrata alla buvette di Palazzo Madama. «Il più è fatto, ora resta solo il voto finale. Speriamo non ci siano problemi...».
E fa bene il ministro a rimanere con i piedi in terra perché la riforma, quando tornerà al Senato nel 2016 per il sì definitivo, dovrà ottenere la maggioranza assoluta: 161 voti. Ieri, all’ultimo voto segreto, la maggioranza è scesa a quota 142 (due giorni fa il limite di guardia era 147) offrendo un’arma per la polemica al capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani: «La maggioranza perde pezzi. Siamo a 142 di cui 7 sono del soccorso esterno dei verdiniani. Ecco i numeri veri con i quali Renzi intende modificare la Costituzione». Replica Giorgio Tonini (Pd): «Romani dovrebbe evitare di fare disinformazione. Nella stragrandissima maggioranza delle votazioni palesi, ma anche in quelle segrete, la distanza tra i voti della maggioranza e quelli delle opposizioni è di diverse decine di voti». E infatti l’ultimo articolo, il 41, è stato approvato con 165 sì, 58 no e 2 astenuti. Eppure i voti mancanti nel segreto dell’urna vengono attribuiti ai forti mal di pancia di Ncd sulla legge elettorale. Di sicuro non vengono dal Pd che, dopo la pace interna ritrovata, ha addirittura schierato Doris Lo Moro e Vannino Chiti per le dichiarazioni di voto del gruppo.
Oltre i numeri, però, ci sono i contenuti della legge che iniziano ad evidenziare qualche crepa. È stato corretto in corso d’opera (con la perdita di alcune ore di tempo) un errore da matita blu che faceva a pugni con le nuove regole di elezione dei giudici costituzionali (3 dalla Camera e 2 dal Senato). Inoltre, i tecnici della materia elettorale definiscono come «vero rebus» la legge quadro, da varare nei sei mesi successivi all’approvazione della riforma, che dovrà stabilire i principi per l’elezione dei senatori: per esempio, nelle regioni piccole (Basilicata, Molise, Umbria, Marche, etc), i due senatori saranno il sindaco di un capoluogo e il governatore. Per cui è inutile parlare di preferenze e listini per queste realtà territoriali.
Un altro aspetto trascurato della discussione conclusasi ieri è quello legato alla riduzione del numero delle regioni proposto da un ordine del giorno Ranucci (Pd) fatto proprio dal governo. In questa ottica, ha detto Walter Tocci (Pd), «ci potrebbe essere la strada per affrontare strutturalmente la situazione creatasi a Roma con le dimissioni di Marino». Il senatore Tocci suggerisce di eliminare il Lazio (il Nord alla Toscana, Rieti all’Abruzzo, il Sud alla Campania) e di tracciare i confini di Roma Capitale come negli Usa esiste Washington Dc: «Utilizzando la legge Delrio si potrebbe sciogliere ora l’intera amministrazione capitolina, esausta, votando poi solo per la nuova città metropolitana». Ma per fare ciò serve tempo, forse tutto il 2016.