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 2015  ottobre 09 Venerdì calendario

Gli inizi nel coro della chiesa, il provino con Dalla a 14 anni, il vizio delle imitazioni: incontro con Rosalino Cellamare, in arte Ron. In uscita martedì la sua autobiografia, "Chissà se lo sai. Una vita per cercare me"

Inutile chiedergli quanto è felice. Non saprebbe darsi una risposta. Da un lato la consapevolezza di essere un ragazzo fortunato, che dalla vita ha avuto molto, grazie alla musica. Dall’altra la sensazione di vivere in perenne ritardo, alla continua ricerca di se stesso. «Sempre desideroso di capire come sono fatto, a identificare le mie urgenze: più domande che risposte».
Nella vita Rosalino Cellamare, in arte Ron, ha scritto pagine importanti alla voce musica italiana. Ora si aggiungono quelle della sua autobiografia. Esce martedì Chissà se lo sai, scritto con il regista teatrale Stefano Genovese. Un libro in cui mette nero su bianco i suoi 62 anni. Sottotitolo forte: «Una vita per cercare me». «In realtà se non fossi stato così insicuro non avrei fatto questa carriera: una debolezza che mi ha reso più forte, più bisognoso di scoprire. Come artista ma soprattutto come uomo ho sempre cercato di prendere a spallate ogni curva della vita». Anche nel periodo in cui prendeva forma il suo sogno di fare il cantante. Erano gli anni Settanta. «Ero convinto di non saper cantare. Mi vergognavo di me stesso: oggi invece la mia voce è cambiata e mi rende orgoglioso perché è frutto di una lunga lotta con me stesso». Una trasformazione anche fisica. «Un’apertura vocale che mi nasce dal petto, forse in passato la costringevo dentro».
La scoperta della fede
Ultimamente qualcosa è cambiato. «Senza domande, dal pubblico ho ottenuto molte delle risposte che stavo cercando. Per questo ho iniziato a suonare per chiunque. Mi piace cantare e non aspetto un disco da promuovere per stare vicino alla gente». Molto nella vita di Ron è cambiato grazie alla fede. Il libro è dedicato a padre Silvano Fausti, gesuita bresciano, fondatore della Comunità di Villapizzone, scomparso a giugno. «Da bambino facevo il chierichetto, poi mi hanno messo a intonare i cori. Ho introdotto in chiesa chitarre e farfise». Poi negli anni 90, la svolta interiore. «Alcuni problemi in famiglia mi hanno spinto a cercare Dio: iniziai a frequentare gruppi di preghiera, a notte fonda dopo i concerti mi chiudevo nei santuari. Quel silenzio era diventata la mia ossessione. Fausti mi ha insegnato a tenere la fede tra le mani». Un gesuita, come Papa Francesco. «La sua forza di cambiamento non ha precedenti».
Ogni capitolo del libro è scandito dal nome di un vino, altra grande passione. «Mi sembrava un buon modo per dare sapore alle pagine». Quasi un atto dovuto per lui cresciuto facendo merenda a salame e vino. «È colpa della mia terra, la Lomellina. Prima pretendevo solo di bere bene, poi mi sono messo a produrre il mio vino, l’ho chiamato “Fra cent’anni”: ho seguito la passione di mio cugino che lo fa di mestiere». Un’altra pausa dalla musica, Ron l’ha presa dieci anni fa, per stare vicino a un amico. L’oncologo Mario Melazzini, colpito da Sla, la sclerosi laterale amiotrofica. «Perdeva un muscolo al giorno: una sfida che mi ha cambiato, migliorandomi. Per lui ho convocato nello studio di casa Jovanotti, Elisa, Baglioni e altri grandi della musica italiana a duettare su miei pezzi. Ne è nato un disco per sostenere i 5mila malati di Sla in Italia».
Fare il cantante. Annusare l’atmosfera, il tête-à-tête col pubblico. La cosa più bella di questa professione. C’è però una cosa che a Ron è sempre pesata. Fin dagli esordi. «In televisione non sono mai riuscito a essere me stesso: più in generale, ho sempre faticato a ridere per finta. Nelle foto, alle presentazioni». Il sorriso da cartolina, l’immagine prima di tutto. La prima cosa bella che si chiede a un giovane aspirante cantante oggi, in un mondo dove la musica si ciba della vetrina televisiva. «Un vero talento non fa la coda per un talent: a Ed Sheeran è bastata la banchina della metropolitana di Londra. Nei Paesi anglosassoni hanno un altro spirito. Qui invece i giovani vanno per tentativi mettendo sempre le mani avanti certi del loro insuccesso».
Il legame assoluto con Lucio Dalla
Una volta cercano i concorsi, si suonava ovunque. «Iniziai che avevo i pantaloni corti. Sul palco Ron ci ha passato una vita, trovandosi (quasi) sempre a suo agio. Anche se c’era da fare il terzo uomo, il gregario. Come ai tempi del trionfale tour di «Banana Republic». Era il 1979. Ron era il music maker, l’uomo ombra di Lucio Dalla e Francesco De Gregori. «Arrangiai tutti i pezzi dei concerti, ma quando mi toccava restar solo sul palco quasi mi sentivo di troppo». Quello con Dalla è il grande amore musicale della sua carriera. «Da bambino lo avevo visto solo sui manifesti. Una sera mi ascoltò cantare a Garlasco. Avevo 14 anni: pochi giorni dopo mia madre mi fece chiamare a scuola dicendo che Lucio mi aveva cercato per un provino. A Roma, il primo incontro negli uffici della Rca, fu con un uomo vestito con una tutina leopardata attillata (era Renato Zero). Convinsi mio padre che non sarebbero stati tutti così. Dalla si presentò ingessato su una carrozzella. Reduce da un incidente con la sua Porsche, non rinunciò all’appuntamento».
La personalità Zelig
Da quel giorno la storia musicale di Ron è piena di metamorfosi. «Ho una personalità marcatamente Zelig. Quando incontro una persona che mi colpisce, istintivamente cerco di emularla». Un camaleontismo incontrollato che negli anni ha generato un formidabile imitatore. «Il mio pezzo forte resta Gianni Morandi. In un certo senso lo sforzo di assomigliare a qualcuno è stato un modo per farmi accettare».
In sottofondo suona un disco di Amos Lee, poi un pezzo di Joni Mitchell, quindi Damien Rice. «I miei preferiti però sono i Coldplay, hanno la stessa forza dei Genesis di una volta». Ron chiude il libro dei ricordi. «Mi piacerebbe lo leggesse Steven Spielberg, il mio guru. Senza bisogno che ne faccia un film». Il futuro, invece, è un po’ come la scatola di cioccolatini di Forrest Gump. Una sorpresa sempre da scartare. «Non fare programmi rende la vita più interessante. Quello che mi spaventa invece è la frenesia e l’arroganza della società di oggi».