la Repubblica, 6 ottobre 2015
Un campo da rugby, un campione aborigeno, la figlia di due anni e quel bambolotto nero. Una foto che ha fatto il giro del mondo, è diventata simbolo dello sport australiano e simbolo dell’Australia che rifiuta il razzismo. E Johnathan Thurston, il capitano dei North Queensland Cowboys è entrato a far parte degli “immortali”
È una bella foto a colori, un atleta sorridente seduto su un campo da gioco con in braccio una bambina, la figlia di appena due anni. Accenna un sorriso anche lei, ma è un particolare (a prima vista insignificante) a fare la differenza: tra la piccola Frankie e il padre Johnathan Thurston nell’immagine compare un bambolotto nero. Nel mondo del rugby australiano, tacciato (spesso a ragione) di razzismo più o meno evidente, quella foto ha un effetto dirompente e nel giro di poche ore – rilanciata migliaia di volte su tutti i social network – diventa un’icona destinata a rimanere nella cronaca e negli annali dello sport più amato dagli Aussie.
Non è solo questione di estetica – l’amore evidente tra un giovane padre e la piccola figlia – e non basta il bambolotto nero, con tutti i suoi ovvi significati, a creare quello che è diventato un (positivo) caso mediatico. Dietro quell’immagine c’è molto altro. Una partita epica (la finalissima della National Rugby League, il rugby “a tredici” considerato il più duro gioco di squadra al mondo), il tempo supplementare di una sfida al cardiopalmo, una squadra di provincia che non aveva mai vinto (North Queensland Cowboys) contro il pluridecorato squadrone della capitale (Brisbane Broncos) in un derby tutto del Queensland e soprattutto due capitani – per la prima volta nella storia – aborigeni.
Per uno sport popolarissimo e ricchissimo – stadi da 90mila posti sempre esauriti, giocatori milionari, cifre da capogiro pagate dalle tv – e fino a pochi anni fa dominato da “machos e bianchi” con un buon contorno di razzismo e misoginia, c’erano tutti gli elementi per un mezzo scandalo. In un altro sport simile e altrettanto popolare, il “football australiano”, lo scorso agosto Adam Goodes – straordinario campione aborigeno dei Sydney Swans, pluripremiato e campione “indigeno” del secolo – era stato costretto ad abbandonare l’attività dopo mesi di “‘buuu” da parte di tifosi avversari e di casa. La sua colpa? Aver inscenato una “danza tribale” per festeggiare un successo.
Domenica sera tutti gli occhi erano puntati su Johnathan Thurston, il capitano degli “underdog” (sfavoriti) Cowboys. Trentadue volte nazionale d’Australia, quattro volte premiato come “il migliore del mondo”, per la prima volta in carriera a disputare la finale per il titolo assoluto.
Lo ha fatto da protagonista: facendosi male e rientrando in campo sanguinante e incerottato, fallendo sul 16-16 a pochi secondi dalla fine il calcio della vittoria, poi – nel tempo supplementare – segnando quello decisivo. Per la gioia dei tifosi (82.758 presenti) impazziti ha infine festeggiato chiamando vicino a sé la piccola Frankie che aveva in mano il suo bambolotto nero. E di colpo tutti i trofei vinti (compreso l’ultimo appena conquistato) sono passati in secondo piano.
Quella foto-icona è diventata prima simbolo della serata, poi simbolo dello sport australiano, infine simbolo dell’Australia che rifiuta il razzismo. E Johnathan è entrato a far parte degli “immortali”.