Corriere della Sera, 3 ottobre 2015
Storia di Stefano, il ragazzo accecato con l’acido da Boettcher e dalla Levato
MILANO Stefano Savi indossa una felpa nera, sta seduto dietro il piccolo tavolo dei testimoni, si è tolto il cappellino e gli occhiali, il suo viso è deturpato, l’orecchio destro non ha quasi più forma, gli occhi sono rovinati dall’acido; alle 16 di ieri racconta le ultime ore della sua «prima» vita; la giudice, a un metro di distanza, lo guarda e lo ascolta; Stefano ha 26 anni, parla con frasi brevi: «Ero con gli amici, abbiamo cenato, poi siamo andati in discoteca, al The club, è stata una serata piacevole; siamo venuti via dopo le 5; arrivato sotto casa, sono sceso dalla macchina per aprire il cancello; tornando indietro per risalire in auto, una persona è scattata verso di me e mi ha lanciato un liquido sulla faccia; ho cercato di tirare un calcio, per difendermi. Ma già iniziavo a non vederci più. Sono corso in giardino e ho provato a pulirmi con un po’ d’erba. Poi ho bussato alla porta di casa».
È la ricostruzione della notte tra 1 e 2 novembre 2014. Savi, secondo l’accusa, è la prima vittima di Alexander Boettcher e Martina Levato, già condannati a 14 anni per l’agguato con l’acido contro Pietro Barbini (28 dicembre 2014). Stefano è stato aggredito per uno scambio di persona. Ieri ha testimoniato nel secondo processo. Suo padre, poco dopo, ha raccontato quel che è accaduto quella stessa notte, quando ha aperto la porta: «Stefano era in condizioni tragiche, aveva i vestiti tutti sciolti dall’acido, nei suoi occhi non si vedevano quasi più le pupille».
Alberto Savi è un persona pacata, seria, perbene; un uomo alto uno e novanta, con gli occhi buoni: i suoi figli, Stefano e il gemello Luca, hanno ereditato la sua altezza e il suo sguardo. «Appena ho visto Stefano – continua il padre – ho soltanto cercato di soccorrerlo, di calmarlo; per alleviare il bruciore agli occhi l’ho messo subito sotto il rubinetto dell’acqua fredda; avevo il terrore di perdere tempo e ho chiamato un amico medico, che mi ha detto “vola al Fatebenefratelli”, ospedale specializzato per gli occhi».
La famiglia Savi ha passato i due mesi successivi a cercare un motivo, ipotizzare un movente, domandarsi chi potesse volere tanto male a quel ragazzo «che non ha mai litigato con nessuno». Ancora Alberto Savi: «Tantissime volte ho chiesto a mio figlio se avesse avuto qualche screzio, fatto qualcosa di sbagliato, qualche brutta amicizia. Mi rispondeva sempre di no». Era vero.
Boettcher e Levato volevano «purificare» il passato della ragazza, aggredendo gli uomini con i quali lei aveva avuto incontri occasionali. Una sera, in discoteca, scambiarono Stefano per un altro: lui non sapeva neppure chi fossero, quei due. L’ipotesi è che a lanciare l’acido sia stata Martina, la «persona che indossava una felpa col cappuccio, una sciarpa sul volto e un piumino “smanicato”» (abiti usati per camuffarsi), mentre Boettcher controllava a distanza. Dal momento dell’aggressione, Stefano Savi è stato ricoverato per 88 giorni in un centro per «grandi ustionati».
La sua vita, oggi, è questa: «Ho fatto 12 operazioni per il trapianto di pelle, dovrò farne ancora. Non posso studiare, perché da un occhio non vedo e con l’altro vedo poco; forse farò un altro intervento a novembre, speriamo. Ho ricominciato a uscire a luglio (8 mesi dopo l’agguato, ndr ), stiamo quasi sempre in casa, vado fuori con mio fratello o la sua fidanzata. In discoteca? No... non vado più». Le ultime parole sono accompagnate da un sorriso. Alla fine della testimonianza, il pm Marcello Musso riflette: «Eccolo, il male. La malvagità umana».
Il padre di Stefano dice: «Sono orgoglioso di mio figlio».
Stefano pronuncia l’ultima delle sue brevi frasi: «Mio padre mi ha sempre dato forza».