Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  ottobre 01 Giovedì calendario

«È sempre stato un Gran Bastian Contrario, sempre contro il pensiero dominante. Non si adeguava alle mode dell’epoca. Era un cavallo solitario...». Questi gli 80 anni di Pansa raccontati da Mieli a Bechis: «Un fuoriclasse, unico. Non era uno dei migliori fra i tanti giornalisti di politica di quella stagione, era proprio unico»

Paolo Mieli ha attraversato la vita di Giampaolo Pansa come pochi altri. Insieme hanno lavorato meno di due anni, a Repubblica. Ma sono stati negli stessi posti: Corriere della Sera, Stampa, Espresso. E si conoscono da decenni: «Ero un giovane giornalista che seguiva la politica per l’Espresso e incrociavo Pansa nei congressi, nei comitati centrali del Psi...».
Quelli in cui lui si portava il celebre binocolo per raccontare meglio gli sguardi e i tic dei vari leader: «Un fuoriclasse, unico. Non era uno dei migliori fra i tanti giornalisti di politica di quella stagione, era proprio unico». Con Mieli, che oggi da presidente di Rcs Libri è diventato editore, di Pansa abbiamo provato a ripercorrere i primi 80 anni... Cominciò da cronista puro. Fu a Lavarone, il giorno del Vajont: «Scrivo da un paese che non esiste più...»...
«Sulla Stampa, dove esordì. Era giovanissimo. Di quei tempi mi ha parlato Alberto Ronchey, che si considerava lo “scopritore” di Pansa. Pensava dal suo curriculum – una buona carriera scolastica, una bella tesi sulla storia partigiana – di trovarsi davanti un ragazzo di buona cultura, come altri. E invece già alle prime prove venne fuori il giornalista formidabile, di una razza speciale, per decenni irraggiungibile».
Per decenni? Poi qualcuno l’ha raggiunto?
«Credo che tutte le nostre generazioni abbiano saputo esprimere un solo giornalista politico fuoriclasse alla Pansa: Ezio Mauro».
Ahi! Chissà se gli piacerà il paragone... Non sembra si amino, i due.
«Dici? Non credo: Ezio Mauro è sempre stato garbato e affettuoso nei suoi confronti, anche quando tutto il suo mondo gli ha girato le spalle. Ho presenti conversazioni private, sempre carine l’uno nei confronti dell’altro».
Giusto, stiamo festeggiando. Non gettiamo zizzania. Raccontiamo quello che è stato nel giornalismo italiano...
«È stato? Eh, no! Pansa è vivo, e ha davanti almeno 15 anni di luminosa carriera. Penso che a 95 anni debba ritirarsi, ma ora ne parliamo come uno che deve ancora dare molto. Vero che ha avuto una lunghissima storia. Si è imposto come giornalista già all’inizio degli anni Sessanta. Dopo dieci anni che si occupava di politica è a lui che Enrico Berlinguer diede la famosa intervista che apriva alla Nato. Pansa era già riconosciuto come numero uno».
Lo era?
«Sì, anche se il suo nome veniva talvolta affiancato a quello di Giorgio Bocca, con cui ha duellato tutta la vita. Un duello bizzarro, cominciato con un Bocca su posizioni più moderate e Pansa più radicali, e proseguito a ruoli invertiti. Fu Bocca a iniziare, peraltro: aveva 15 anni più di lui, e non sopportava un giovane così brillante già al suo livello. Cercava di guardarlo dall’alto in basso, ma Pansa già allora aveva più estimatori».
C’è un suo pezzo che ricordi più di ogni altro?
«Sì, uno scoop che spiega perché è un fuoriclasse. Il racconto davanti ai cancelli della Fiat, dove chiacchierando scoprì che gli operai tifavano per le Brigate rosse molto più di quanto non si supponesse. E mille altri scritti in cui metteva in rilievo le contraddizioni. Pansa è sempre stato un Gran Bastian Contrario, sempre contro il pensiero dominante. Non si adeguava alle mode dell’epoca. Era un cavallo solitario...».
Solitario, ma dentro una scuderia che andava per la maggiore, come quella di Repubblica...
«Secondo me, lì fece un errore accettando incarichi direttivi. Fece benissimo il vicedirettore di Repubblica, era prodigo di consigli, correzioni e incoraggiamenti verso i giovani. È sempre stato un grandissimo lettore di pezzi altrui, anche sui giornali locali. Così è diventato pure uno scopritore di talenti...».
Allora non ha sbagliato ad accettare incarichi direttivi...
«Pansa fu coraggioso a scegliere Repubblica. Quando lo fece era la prima firma del Corriere, e se fosse restato lì oggi forse sarebbe senatore a vita, o presidente della Rai...».
Non credo che la sua ambizione fosse farsi imbalsamare.
«Già, il Gran Bastian Contrario non poteva diventare un tenore, un baritono che pontifica. Vero. Quanto a Repubblica, quella storia fu travagliata, ma lo strappo vero fu quando andò all’Espresso. Qualcosa si ruppe lì, e si frantumò dopo Il sangue dei vinti. Non lo invitavano quasi mai ai dibattiti, non lo volevano in tv. Era un giornalista di sinistra, credo che lo sia ancora oggi. Ed era un mondo in cui si dividevano per appartenenza buoni e cattivi. Lui fu ostracizzato dai buoni, dai suoi. Ne soffrì. Forse anche questo clima lo portò da Bastian Contrario a posare ancora di più gli occhi dove prima non gli capitava...».
Ti riferisci al Sangue dei vinti?
«Fino a pochi anni prima Pansa non avrebbe nemmeno pensato di occuparsi in quel modo della storia del dopoguerra. Nel 1990 esplose il caso di Otello Montanari, il partigiano che chiese di fare uscire la verità sui fatti del dopoguerra (“Chi sa parli”). Pansa lo attaccò duramente con corsivi al vetriolo, e se la prese pure con me e Pierluigi Battista perché sulla Stampa davamo troppo spazio a quelle vicende».
Anni dopo chiese scusa di questo a Montanari, cui dedicò il capitolo di un suo libro, Il revisionista. Che peraltro hai pubblicato tu, che sei il suo editore...
«Sì, lavoriamo insieme in questa sua seconda vita. Come scrittore lui ha una popolarità grandissima. Quando vado in giro per librerie e incontro il pubblico, la tasto sempre con mano. È uno dei nostri autori più amati nel paese. C’è un partito di Pansa, di persone che credono in lui, che lo vedono come una persona pulita, vicina a loro».
Era popolare come scrittore già prima del Sangue dei vinti?
«Lo era, ma dentro un cursus di quelli che poi ti fanno finire al Palavobis. Adesso tutto quello che ha è suo, non deve condividere né con i direttori dei giornali per cui ha scritto, né con l’area politica dove quei giornali si collocano. Ora è seguito con affetto da migliaia di persone dell’una e dell’altra area. Ha un pubblico suo, non un pubblico di destra o di sinistra. Ho in mente le tre sorelle Manfrotto, proprietarie di una delle più belle librerie d’Italia, che sta a Bassano del Grappa: per Pansa hanno una autentica venerazione, e non sono certamente di destra. Sono affezionate a lui. E così il suo pubblico. Non potevano essere solo nostalgici quelli che comprarono Il sangue dei vinti: un milione di persone».
Allora quel libro non divise il pubblico come invece ha fatto con politici e intellettuali?
«Quel libro ha avuto reazioni insopportabili. La peggiore? Dire che tutto era già stato scritto. Sì, qualcosa in libricini trovabili solo dagli studiosi. Pansa ha fatto un gran lavoro, scrupolosissimo. Tanto che non ha avuto alcuna smentita nè querela. Gli storici non gli hanno reso l’onore che meritava, ma tutti da quel momento in poi senza citarlo hanno tenuto conto di quel che ha scritto. Anche nei manuali».
Che augurio hai per i prossimi 15 anni di Pansa?
«Di fare come oggi l’osservatore da vicino, girando l’Italia con la sua Adele con il pretesto dei libri. Per continuare a incontrare persone, raccogliere storie, appuntarle. Mi auguro di ritrovarlo fra 15 anni e di sentirlo dire che in questo tempo si è divertito, ha avuto gioia di vivere e il piacere di avere trasmesso quella gioia ai suoi lettori».