La Stampa, 1 ottobre 2015
Sgomberata la tendopoli di Ventimiglia. Dopo 100 giorni, senza scontri e grazie al Vescovo, i migranti accampati sul confine sono portati nei centri di accoglienza. Si sono fatti portare in commissariato, per farsi identificare ma nessuno sarà fermato: è nei patti
Alle cinque e un quarto del pomeriggio Antonio Suetta, Vescovo di Ventimiglia, risale dalla scogliera e sospira: «Sono fiducioso». Da quel momento in poi cambia tutto. I finanzieri sfilano i caschi e calcano sul capo i baschi verdi, i blindati dei carabinieri se ne vanno, i poliziotti sciolgono la tensione fermandosi a chiacchierare a gruppetti. Tutto il contrario di mezz’ora prima. Perché, rewind, i carabinieri avevano impugnato gli scudi, gli uomini della scientifica erano saliti sui camioncini con le macchine fotografiche e i manganelli penzolavano dai cinturoni. Tutto sembrava pronto per lo scontro. Da una parte una quarantina di attivisti No Borders, quelli sgomberati all’alba dal campo abusivo sorto al confine tra Italia e Francia, nel piazzale sul mare di Ponte San Ludovico. Con loro una ventina di migranti: gli irriducibili dal nòvero di chi, più di cento giorni fa, ha dato il via alla protesta contro la Francia, che ha blindato le frontiere chiudendo la porta a chi cercava di varcare il confine.
Scontro evitato
Poi arriva monsignor Suetta. Con i No Borders dialoga da settimane. Non fa mancare il suo sostegno. Si è anche attirato critiche, non poche, per aver donato duemila euro ai promotori del presidio: «L’ho fatto perché non ci fosse nessuno che soffrisse la fame».
Alla fine si arrendono anche i giapponesi di questa strana guerra di posizione. I migranti si incamminano verso i pullman che li portano al centro di prima accoglienza, vicino alla stazione ferroviaria. Gli attivisti accettano di farsi portare in commissariato, per farsi identificare. Nessuno sarà fermato: è nei patti. È un finale in cui tutti sperano ma che per ore, durante una giornata interminabile, sembra una meta imprendibile. Di nuovo, tutto un altro mondo rispetto a com’era iniziata. Riavvolgendo ancora il nastro si torna all’alba e ancora prima, quando sul confine c’è il buio e le uniche luci sono quelle di Mentone.
Non sono neanche le 6 del mattino, quando da Bordighera parte la lunga fila dei blindati di polizia e carabinieri. Dietro, volanti e gazzelle. A bordo di quei mezzi, quasi duecento persone. La meta è Ventimiglia, l’incarico quello di sgomberare e sequestrare l’accampamento dei migranti e dei No Borders. Una cittadella di tende, con cucine, servizi e docce. Ma è un accampamento illegale e la magistratura ha detto stop, elencando una lunga serie di reati: occupazione abusiva, manifestazione non autorizzata, furto di acqua e di elettricità.
Sessanta occupanti aspettano già, di nuovo, sugli scogli: qualcuno ha visto i blindati passare, qualcuno li ha avvertiti sui telefonini: lo sgombero non è più una sorpresa. Quando gli agenti scendono dai mezzi, partono i cori. Il più ripetuto è quello che ha contrassegnato i primi giorni della protesta: «Noi di qui non ce ne andremo, noi non torniamo indietro». Slogan reiterati tutto il giorno, tanto da non far presagire la soluzione pacifica che poi verrà. Un finale che lascia tutti gli interrogativi aperti. Esempio di solidarietà e di accoglienza o patacca mediatica a uso interno del circuito antagonista? Immigrati protagonisti o «convinti dai No Borders a fermarsi qui», come ha detto il vicesindaco di Ventimiglia Silvia Sciandra? Quesiti senza risposta.
Intanto, però, l’accampamento crolla come un castello di carte. Le mani degli agenti afferrano le tende, le sedie, i tavoli, li accatastano in un’aiuola. Arrivano due camion dell’immondizia. Arriva persino una ruspa. Tutti quegli oggetti diventati il simbolo dell’iniziativa dei No Borders per i migranti finiscono triturati nei camion. In poche ore non c’è più nulla. In un’aiuola rimane un calciobalilla che nessuno ha il coraggio di buttar via. Sotto i pini un triciclo.
Alla fine, tocca a monsignor Suetta. Giganteggia nella giornata, in maniche corte e crocifisso sul petto. Fa il suo mestiere, dice: cercare dialogo e costruire soluzioni. In realtà ci sperano tutti. Le forze dell’ordine da una parte. Dice un agente a un suo superiore? «Andiamo a prenderli? E se uno si fa male? Creiamo un martire?». Gli stessi No Borders sembrano alla ricerca di una soluzione al cul-de-sac in cui si sono infilati, dove la loro azione non genera altri clamori mediatici se non in negativo. Questa storia finisce qui. Con i massi sotto ai Balzi Rossi sgomberi, come in quella mattina del 13 giugno, prima che iniziasse la rivolta dei cento giorni dei migranti sulla scogliera.