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 2015  ottobre 01 Giovedì calendario

Putin bombarda le cellule anti-Assad più che quelle del Califfato. E la cosa preoccupa gli Usa che vuole verificare quali sono i reali obiettivi delle azioni della Russia ma Kerry non chiude il dialogo perché «esiste la possibilità di riportare la pace in Siria, ma non con colui che ha provocato la guerra»

«Se le recenti azioni della Russia riflettono un genuino impegno a sconfiggere lo Stato islamico, siamo pronti ad accoglierle e deconflittualizzare le nostre operazioni, per moltiplicare la pressione militare sull’Isis. Però non confonderemo la nostra lotta contro Isis col sostegno ad Assad». 

No ad Assad

La scena di questa dichiarazione del segretario di Stato Kerry davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu è drammatica. Proprio la Russia, da tempo, aveva organizzato per oggi una sessione del Consiglio dedicata alla «Risoluzione dei conflitti nella regione Medio Oriente & Nord Africa», ma ieri i caccia di Mosca hanno condotto i primi raid in Siria. Quindi il ministro degli Esteri Lavrov, presidente della sessione, dà la parola a Kerry per ricevere il suo avvertimento: «Abbiamo chiarito di essere molto preoccupati, se la Russia colpisse aree dove l’Isis e i gruppi di al Qaeda non operano. Raid di questo genere metterebbero in dubbio le reali intenzioni di Mosca di combattere lo Stato islamico, o proteggere il regime di Assad». Uno scarto grave perché, secondo il segretario di Stato, «esiste la possibilità di riportare la pace in Siria, ma non con Assad che ha provocato la guerra».
La reazione pubblica americana ai primi raid russi non è stata isterica. Il giorno prima Kerry aveva detto che il coinvolgimento militare di Mosca in Siria poteva essere «un’opportunità», e ieri lo ha sostanzialmente confermato, con un distinguo: se il Cremlino usa la forza per combattere l’Isis, e nello stesso tempo accetta di lavorare alla transizione politica, questo potrebbe aprire uno spiraglio per la soluzione del conflitto. Se invece punta solo a difendere Assad, la crisi è destinata ad acuirsi.
Fonti coinvolte nel negoziato dicono che le indagini sono ancora in corso, per capire se i raid russi ad Homs hanno preso di mira gli oppositori moderati del regime, oppure le cellule terroristiche che esistono anche in quella regione. La chiave di tutto è che Mosca accetti il concetto delle «azioni parallele»: da una parte quella militare, per sconfiggere l’Isis, e dall’altra quella politica, per trovare l’accordo che chiuda il conflitto.
Le tappe 
Su questo punto si lavora a tre livelli: favorire il dialogo tra Mosca e Washington, unire gli oppositori moderati, e coinvolgere le potenze regionali. La prima operazione è già in corso all’Onu, con i contatti fra Kerry e Lavrov. La seconda è avviata da tempo, al punto che gli oppositori sono già andati a Bruxelles nei giorni scorsi per costruire un fronte più coeso, che escluda naturalmente l’Isis e al Nusra. Alla terza sta lavorando soprattutto l’Europa, perché è in una posizione avvantaggiata per fare da ponte. I sauditi parlano solo coi sunniti turchi, mentre l’Iran sciita parla con Mosca e Damasco. La Ue può usare il rapporto costruito con Teheran durante il negoziato nucleare, e il dialogo sempre aperto con Ankara per fare da garante e portare tutti al tavolo.
Se questi tassello andranno a posto, sotto la regia dell’inviato Onu Staffan de Mistura che a metà ottobre convocherà i suoi gruppi di lavoro, la chiave diventano le “azioni parallele” e i loro tempi. Una è quella militare, nella speranza che Usa e Russia si coordino per colpire solo l’Isis. L’altra è politica, e riguarda l’avvio di un processo di transizione che dovrà portare alla sostituzione di Assad, ma con una figura che dia garanzie ai russi. In questo quadro, è importante la dichiarazione dal ministro degli Esteri britannico Hammond: Assaf non può restare, ma la sua uscita di scena non deve essere necessariamente il primo passo. Può anche avvenire alla fine del processo, se questo serve a far convergere tutti verso una soluzione politica condivisa.