Corriere della Sera, 1 ottobre 2015
Certificato di proprietà dell’automobile, addio: ora che anche questa veneranda pergamena è stata smaterializzata e finirà presto su una nuvoletta digitale, il pensiero vola agli anni ruggenti dell’Automobile Club d’Italia. Fondato nel 1898 dagli stessi torinesi che qualche mese dopo avrebbero costituito la Fiat, «il Club era figlio di un tempo magico, che tra scienza, arte e tecnologia inaugurò le esplorazioni della modernità, i circoli geografici e di viaggio, l’epopea del volo, dell’elettricità, della velocità. Chiunque, alla fine dell’Ottocento, si proclamasse moderno, non poteva non figurare tra gli iscritti»
Era diventato bello più di una laurea, il Certificato di proprietà degli autoveicoli, con le sue grechine viola, uno stemma al centro e persino i riflessi multicolori di un ologramma. E ora gli tocca sparire.
La carta, si sa, vive anni difficili e anche lui deve cambiare, smaterializzarsi in nome della rivoluzione informatica. Sarà sostituito prima da un codice segreto, da rivelare solo in casi estremi e poi, giunta l’ora, volerà su una nuvola, l’ennesima «cloud» del nostro orizzonte digitale. Mentre questa piccola pergamena, subito sepolta nel cruscotto o peggio smarrita (nel 2014 ne abbiamo persi trecentomila) sta per lasciarci, il pensiero va ad anni meno tecnologici e più ruggenti, in cui per dimostrare che un’automobile era nostra bastava esserci seduti sopra (funzionò così fino al 1927). E prima ancora, a quando, oltre alla proprietà, si codificarono il lato «giusto» della strada, l’esame per la patente, i regolamenti di gara, la moderazione nell’uso del clacson e, naturalmente, la tassa di circolazione.
Di tutto questo si occupò, tra gioie e dolori, l’Automobile Club d’Italia, che oggi festeggia centodieci anni di età, ma forse se ne toglie qualcuno, come vedremo tra poco. Il Club era figlio di un tempo magico, che tra scienza, arte e tecnologia inaugurò le esplorazioni della modernità, i circoli geografici e di viaggio, l’epopea del volo, dell’elettricità, della velocità.
Chiunque, alla fine dell’Ottocento, si proclamasse moderno, non poteva non figurare tra gli iscritti. Certo, per permettersi un’auto, bisognava avere almeno un castello: e infatti, fra i 1.563 automobilisti italiani del 1908, ecco 14 principi, 6 duchi,1 visconte, 44 marchesi, 81 conti, 16 baroni e un battaglione di gentlemen. La meglio gioventù.
Ma il 1908, come dicevamo, è tutt’altro che un inizio: sono già dieci anni, a ben guardare, da quando «….è sorto in Torino un Automobile Club che intitolatosi dapprima Subalpino si cambiò poscia in d’Italia, atteso il numero di adesioni pervenute dalle provincie d’Italia centrale e meridionale». Così scrive «L’Automobile», primo periodico italiano del settore, il 15 novembre 1898. E chi siede intorno al tavolo notarile – come continua il giornale – «proponendosi di favorire in ogni modo lo sviluppo dello sport automobilistico (…) preparando passeggiate, gare, corse, per la prossima stagione di primavera»? Sono gli stessi torinesi che di lì a qualche mese sigleranno l’atto costitutivo della Fiat. Accanto ad Agnelli, Bricherasio, Goria Gatti e altri notabili ci sono i conti Roberto e Carlo Biscaretti di Ruffia, padre e figlio, che al Club dell’automobile e alla storia delle quattro ruote daranno la prima presidenza e buona parte della vita. Il conte Roberto, in fotografia, ha l’aria distinta. Ma sotto freme «ebbro di spazi», come nella poesia di Marinetti. Inventa lo Yacht Club d’Italia, patrocina il Veloce Club Torinese, fa venire da Parigi uno dei primi tricicli a motore, partecipa, sotto lo pseudonimo di Capitan Nemo, alla corsa Torino-Alessandria-Torino, contagiando il figlio Carlo, ancora minorenne.
Il «contino» partecipa al primo Giro automobilistico d’Italia su strade, con mezzi, e di fronte a un pubblico non facili da immaginare. Ha in tasca una delle prime patenti di guida italiane, ma anche un occhio d’artista, una prodigiosa maestria nel disegno meccanico, nella tecnica dell’esploso, a lapis, pastello e acquerello.
Nella Torino art nouveau, dove gli stand dei primi Saloni sono meravigliose scenografie, il suo talento è subito riconosciuto. Diventerà l’illustratore delle maggiori industrie del tempo, poi l’ideatore di mostre, rassegne, collezioni, quindi giornalista e storico. Fino al progetto di una vita, quel Museo nazionale dell’automobile di cui l’ACI è uno dei soci fondatori. Carlo Biscaretti fu direttore in fieri dal 1933 al ’59. Ma l’opera, molto italianamente, fu inaugurata solo l’anno dopo, quando il conte-pioniere – non senza amarezza – era già partito per l’ultimo viaggio.