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 2015  settembre 30 Mercoledì calendario

«Con laser e nanoparticelle svelo il lato segreto dell’arte». L’investigatore delle opere d’arte più importanti del mondo è un italiano, si chiama Marco Leona e dirige la sezione scientifica del Met di New York. «All’esame della spettroscopia i capolavori si trasformano. Le nostre tecniche associano l’analisi chimica all’immagine, in modo rivoluzionario, facilitando il dialogo con gli storici dell’arte e i restauratori attraverso un linguaggio comune»

L’investigatore delle opere d’arte più importanti del mondo è un italiano, si chiama Marco Leona, viene da Ivrea e dirige la sezione scientifica del Metropolitan Museum di New York. L’11 ottobre, alle 18,30, sarà al Teatro Sociale di Bergamo, in occasione del festival Bergamo Scienza, per conversare con il Nobel per la Chimica Richard Ernst: quest’ultimo non solo ha sviluppato la risonanza magnetica nucleare per determinare la struttura delle proteine, ma è un grande esperto d’arte tibetana. I due si conoscono da quando alcune opere della collezione del Nobel furono esibite in una mostra organizzata dal «Lacma», il Los Angeles County Museum of Art, dove Leona ha lavorato prima del Met.
Può raccontare il suo percorso da Ivrea a New York?
«Ho studiato chimica a Pavia, dove ho conseguito il dottorato in mineralogia e cristallografia, cioè lo studio dei minerali con tecniche a raggi X. Poi sono partito per un post-dottorato all’Università del Michigan. Doveva essere di sei mesi, sono diventati un anno e… sono ancora qui negli Usa! In Michigan ho scoperto la scienza nei musei, visitando il laboratorio del Detroit Institute of Art. Il che mi ha spinto a cercarvi un lavoro e ho trovato una borsa al “Lacma”. Da lì mi sono poi spostato alla Freer Gallery of Art di Washington, la collezione di arte asiatica dello Smithsonian, per poi tornare come “senior scientist” al “Lacma” prima di essere chiamato al Metropolitan per fondare il dipartimento di ricerca scientifica che dirigo».
Qual è l’opera più importante che ha studiato?
«”La Grande Onda” di Hokusai, una delle stampe dell’Ottocento più riprodotte al mondo, di cui il Metropolitan possiede i due esemplari migliori. Ma abbiamo anche copie di qualità inferiore. Confrontandole, usando la “spettroscopia di riflettanza” – cioè l’analisi spettrale della luce riflessa, in pratica la misura quantitativa del colore – abbiamo determinato che le stampe più belle sono assolutamente identiche nel colore. Questo non solo ci ha dato un metodo per riconoscere la prima edizione, ma ci ha fatto riflettere sulla qualità del lavoro dello sconosciuto stampatore. Le stampe erano infatti realizzate a mano».
E tra le opere che passano in mostra ne ricorda una in particolare?
«Una scultura africana da noi in esposizione, di solito custodita al Museo Pigorini di Roma. Un mangaaka, un idolo chiodato, con delle lame conficcate nella statua, che aveva grande importanza rituale nel Congo dell’Ottocento. Da sei anni analizziamo questo tipo di sculture con la microscopia elettronica e la spettroscopia infrarossa e “Raman” per analizzarne i pigmenti e con la spettrometria di massa per analizzarne le resine vegetali usate per i rituali. Dall’analisi della superficie si è stabilito che il sacerdote masticava noci di cola, ricche di caffeina, e sputava il succo sulla statua».
Quali sono i mezzi che usa per le sue ricerche?
«La spettroscopia di fluorescenza a raggi X per determinare quali elementi siano presenti in un’opera. Un’altra tecnica – come accennavo – è la spettroscopia “Raman”. Si usa un raggio laser per esplorare a livello molecolare la struttura vibrazionale dei materiali in esame. Una variazione di questa tecnica è quella in cui si usano nanoparticelle d’argento per amplificare il segnale dei materiali analizzati. È una delle tecniche più sensibili, con cui abbiamo scoperto l’esempio più antico di un colorante estratto da piante, la robbia, utilizzato per colorare di rosso un oggetto di cuoio in Egitto, più di 4 mila anni fa. Infine, l’“hyperspectral imaging”, che combina la fotografia e la spettroscopia di riflettanza. Queste tecniche associano l’analisi chimica all’immagine, in modo rivoluzionario, facilitando il dialogo con gli storici dell’arte e i restauratori attraverso un linguaggio comune».
Quali sono le più grandi scoperte fatte con questi strumenti?
«Una recente è di alcuni colleghi in Olanda e in Inghilterra, con cui lavorano anche ricercatori del mio dipartimento. Hanno scoperto che le vernici nei dipinti dei grandi maestri continuano ad evolversi e a reagire. Un esempio è quello dei sali di piombo che si formano per reazione degli acidi grassi contenuti nell’olio di lino, quello delle pitture a olio, e il piombo contenuto nel pigmento bianco più importante, appunto il bianco di piombo. Questi sali hanno un effetto negativo sull’aspetto dei dipinti e ne stiamo studiando la formazione. Per la conservazione, poi, e in particolare per la pulitura, si sta affermando il laser. Tecnica tra l’altro in cui è all’avanguardia la Quanta systems, un’azienda italiana».
Con lei lavorano anche altri italiani?
«Sì. E sono bravissimi. Adriana Rizzo, chimica di Venezia e restauratrice, che si occupa della scultura del Congo. Federico Carò, geologo di Pavia che ha sviluppato un metodo per determinare la provenienza delle sculture Khmer in base alla composizione mineralogica delle arenarie. E tanti studenti, tra cui Federica Pozzi, che ora lavora al Guggenheim, e Anna Cesaratto, che ha sviluppato un sistema unico al mondo di spettroscopia laser».
Il «suo» Metropolitan, museo omnibus, qual è?
«Al Met, come in tutti i grandi musei, bisogna tornarci per guardare le opere con calma. Le gallerie giapponesi sono il mio spazio preferito. E lo Studiolo di Gubbio, fatto costruire da Federigo da Montefeltro: non solo un capolavoro, ma un ambiente suggestivo».