Corriere della Sera, 30 settembre 2015
Nel 1956 stamparono una cartolina con la fotografia. «Vera foto», c’era scritto accanto alla minuziosa descrizione dell’opera: «Il ponte sospeso sullo Stretto di Messina progettato dall’ing. Mario Palmieri, Italo-Americano, sarà il più lungo del mondo». Tutte le promesse dei politici da allora ad oggi, i 300 milioni di euro già spesi e il miliardo di penale che rischiamo di pagare ai titolari del contratto firmato dieci anni fa che hanno fatto causa
«Se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto potrà andarci anche alle quattro del mattino senza aspettare il traghetto», prometteva dieci anni fa agli amanti Silvio Berlusconi. Ah, l’amore… non esiste motivazione più potente. Neppure Cupido, tuttavia, è riuscito a trasformare in realtà la grande illusione. E certo il ponte è stata la più grande di tutte.
Ma che cosa sarebbe la politica italiana senza promesse e illusioni? Sono così reali, talvolta, che si finisce per crederci.
Nel 1956 stamparono una cartolina con la fotografia. «Vera foto», c’era scritto accanto alla minuziosa descrizione dell’opera: «Il ponte sospeso sullo Stretto di Messina progettato dall’ing. Mario Palmieri, Italo-Americano, sarà il più lungo del mondo. La sua lunghezza sarà di m. 3.710. Le due campate centrali saranno di m. 1.200 ciascuna. Sarà sorretto da 3 piloni (…). Il costo complessivo dell’opera sarà di 100 miliardi di lire».
Il boom economico era iniziato. I cantieri dell’autostrada del Sole, che sarebbe stata completata in soli otto anni al ritorno di 94 chilometri l’anno si erano appena aperti, e nulla vietava di sognare lo stesso sogno che da millenni si faceva. Il sogno di materializzare il miracolo di San Francesco da Paola, traslato da Scilla a Cariddi via mare, camminando sulle acque. L’avevano sognato consoli romani, viceré spagnoli e pure Benito Mussolini, che aveva appena precipitato l’Italia nell’abisso della guerra mondiale: «Dopo la vittoria getterò un ponte sullo stretto di Messina...». Sappiamo com’è andata.
Di sicuro l’illusione non si doveva fermare. Così nel 1971 il Parlamento approvò una legge per «l’attraversamento stabile dello Stretto». La volle un ministro dei Lavori pubblici socialista, il siciliano Salvatore Lauricella, nel governo di Emilio Colombo. L’età dell’innocenza del Dopoguerra era svanita, si era già negli anni bui. Ma la spesa pubblica aveva preso a galoppare e i soldi degli appalti oscuravano ormai i progetti, come raccontò al Corriere il padre dell’Autosole Fedele Cova. La pratica venne affidata a una società controllata dall’Iri, la Stretto di Messina spa. Il suo capo era Gianfranco Gilardini, un ex manager Fiat scrupoloso fino all’inverosimile. La Guerra fredda imperversava e lui pretese un test di resistenza del ponte alla bomba atomica. Mentre Zio Paperone, in un Topolino del 1982, faceva il test dei palloncini con cui tenere il ponte di Messina sollevato nell’aria. Tanto pareva leggero...
Bettino Craxi lo brandì nella campagna elettorale del 1992. Tangentopoli lo seppellì. Poi Berlusconi lo resuscitò per gli amanti. E fra promesse e illusioni fu colui che ci andò più vicino. Lasciò il contratto firmato con il general contractor Impregilo a Romano Prodi, il quale l’avrebbe riposto nel cassetto. Chissà se il Professore ricordava ciò che aveva detto nel 1985 da presidente dell’Iri: «I lavori cominceranno al più presto. L’auto risparmierà 40 minuti, l’autocarro 35 e il treno 92».
Berlusconi lo resuscitò di nuovo, ma poi inaspettatamente lo tramortì e toccò a Mario Monti recitare il de profundis. In attesa della prossima resurrezione. Ovviamente illusoria. Con una sola inquietante realtà: i 300 milioni già spesi e il miliardo di penale che rischiamo di pagare ai titolari del contratto firmato dieci anni fa che hanno fatto causa. Perché il ponte, come ha scritto il Wall Street Journal, «spicca come il monumento allo Stato dell’Italia per una ragione: non è mai stato costruito. È l’emblema della cronica indecisione che incatena l’Italia al proprio passato...».