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 2015  settembre 30 Mercoledì calendario

Per fermare l’ostruzionismo di Calderoli, 80 funzionari del servizio Assemblea hanno lavorato 19 ore al giorno per sei giorni. Hanno applicato un software per dare un numero ai 72 milioni di emendamenti. E così Pietro Grasso ha potuto dichiararli irricevibili. Ma siamo davvero sicuri che sia finita qui?

Dovrei sospendere i lavori dell’aula per 17 anni, per dedicare un minuto a ogni emendamento» ha detto ieri il presidente Grasso. Si sbagliava. Se lui non avesse disinnescato con un solo aggettivo – «irricevibili» – i 72 milioni di emendamenti, la bomba a orologeria sganciata su Palazzo Madama dal perfido Roberto Calderoli, i senatori avrebbero dovuto fermarsi fino a domenica 18 maggio 2177, lasciando in eredità la riforma della Costituzione ai nipoti dei nipoti dei loro nipoti. Perché solo per stabilire se quegli emendamenti fossero ammissibili, dedicando a ciascuno di essi appena un minuto e lavorando per 24 ore al giorno senza fermarsi mai, ci sarebbero voluti 161 anni, sette mesi e 21 giorni. E nel frattempo il palazzo del Senato sarebbe scomparso sotto le 41 mila 650 tonnellate di carta che sarebbero servite per distribuire le copie di quegli emendamenti, ovvero 20 mila 570 volumi per ciascun senatore. L’opera omnia del Calderoli emendatore avrebbe occupato da sola il doppio dello spazio della biblioteca Leopardi di Recanati. Uno scenario da incubo, dissolto ieri mattina grazie alla formula magica di Grasso: «Irricevibili».
Ancora sorride, il vicepresidente leghista del Senato, pensando al trappolone che non ha funzionato. E racconta che la prima volta, quando depositò i suoi 47 mila emendamenti all’Italicum, portò lui stesso col carrello quegli scatoloni al servizio Assemblea, un luogo dove pochi possono entrare e che gli addetti ai lavori chiamano “il Miglio Verde”, come il romanzo di Stephen King. «Un posto che per trovarlo ci vuole il cane da guida – spiega lui – perché si salgono le scale, si scendono tre gradini, si svolta a destra e poi c’è una porta…». Oltre la porta, alle spalle del tavolo dal quale passano i fascicoli con le proposte di correzione alle leggi, ci sono due lunghissime file di scrivanie, una affiancata all’altra, senza divisori né pareti, seguendo la pianta del palazzo fino a formare una gigantesca U, e attorno alle scrivanie si alzano le altissime scaffalature dove vengono impilati i fascicoli.
Non è un lavoro semplice. Tutti gli emendamenti vanno ordinati secondo un ordine rigorosamente codificato. Bisogna dividerli per articolo. Poi per comma. Poi bisogna dare la precedenza a quelli soppressivi, quindi a quelli sostitutivi e infine a quelli modificativi, cominciando dalle correzioni che si allontanano di più dal testo base. Facile, con cento emendamenti. Un po’ meno, con 85 milioni.
Il suo piano, Calderoli lo aveva affinato a poco a poco, prima di affidarsi al suo algoritmo prodigioso, destinato a un flop epocale. L’anno scorso, per far capire che la riforma del Senato non gli piaceva, mise sul tavolo 4 mila emendamenti, divertendosi a vedere quegli enormi volumi che i suoi colleghi dovevano tenere sul banco per seguire le votazioni. Poi, quando a Palazzo Madama arrivò l’Italicum, lui decuplicò lo sforzo: 47 mila. Li cancellarono tutti, ma prima dovettero stamparli, e Calderoli fece arrivare i vigili del fuoco per controllare che il palazzo reggesse quel carico. «Vennero, e se ne andarono dubbiosi. Così pensai: se ne deposito 500 mila qui crolla tutto». E lo ha fatto, naturalmente. «Ma prima ho chiesto alla Finocchiaro se potevo consegnarli su un dischetto. Il regolamento dice che devono essere presentati “per iscritto”, non dice “su carta”. La Finocchiaro mi ha detto di sì, e così io ho depositato 14 Cd con 510 mila 293 emendamenti alla riforma del Senato. Se ne avessero stampate 321 copie, sarebbe crollato il secondo piano». Invece ne hanno stampato solo due copie, 121 tomi da 500 pagine l’uno, che ora sono ammonticchiati per terra nella segreteria della Prima commissione, perché i funzionari hanno messo in campo un maxischermo dove venivano proiettati man mano che procedeva l’esame in commissione. Contromossa di Calderoli: «Presidente, io non ci vedo. Li può leggere per cortesia?». E quando la Finocchiaro ha letto il primo, è arrivato di rinforzo il senatore Mauro: «Presidente, io non sento». È finita come sappiamo: la parola è passata all’aula.
Ed è allora che Calderoli ha sganciato la sua arma fine-di-mondo, quella che nei suoi piani avrebbe dovuto paralizzare il nemico. Era sicuro di far saltare la macchina del Senato, schiacciandola sotto il peso di quella montagna di parole. Si sbagliava: aveva sottovalutato il Miglio Verde. Oltre quella porta, quando il vicepresidente del Senato ha consegnato con un ghigno di sfida il suo Dvd con gli 85 milioni di emendamenti, è scattato l’allarme rosso. Non toccava a loro decidere se erano uno scherzo o roba seria, quelle proposte andavano comunque messe nell’ordine previsto dal regolamento. E presto, prima che il presidente fosse chiamato a pronunciarsi.
È stato ripristinato lo schema di questa estate, quando arrivò il primo mezzo milione di emendamenti: allora su ogni scrivania furono affiancati due monitor comandati da un unico mouse, che spostava gli emendamenti dal “monitor Calderoli” al “monitor Senato”. Stavolta all’algoritmo del leghista, il Miglio Verde ha risposto con un «ordinatore meccanico», un sofware capace di riconoscere le parole e di organizzare gli emendamenti secondo le regole del Senato. Ma quella era solo la prima parte del lavoro: poi bisognava inserirli manualmente al posto giusto. Ottanta consiglieri, funzionari, documentaristi e segretari si sono distribuiti i pacchetti di emendamenti e hanno lavorato per sei giorni di seguito – domenica compresa, si capisce – per 19 ore al giorno. Poi, alla fine, ogni emendamento ha avuto un numero.
Così ieri mattina, quando il presidente Grasso è arrivato in aula, ha potuto comunicare all’assemblea che «tutti gli emendamenti sono stati numerati e ordinati per tempo». Poi, certo, per leggerli avrebbe dovuto impiegare 161 anni. E dunque li ha dichiarati «irricevibili», per non creare «un precedente che consenta di bloccare i lavori parlamentari per un tempo incalcolabile». Ma tra le scrivanie del Miglio Verde adesso aleggia una domanda: siamo davvero sicuri che sia finita qui?