Corriere della Sera, 29 settembre 2015
Alitalia, vent’anni di bilanci in deficit. Persi 5 miliardi prima del crac. Il ruolo dellla politica e quello di sindacati e dipendenti. La principale colpa degli amministratori che hanno contabilizzato le perdite, tutti, fino a Cimoli, è stata quella di fingere di non vedere e continuare a imbastire piani immaginifici, finanziati da soldi pubblici, fino al tracollo
Condanna esemplare o sentenza stringente quella sul crac di Alitalia? Sono davvero gli amministratori che sono stati chiamati al risarcimento dal Tribunale di Roma, a partire da Giancarlo Cimoli, coloro che hanno rotto il giocattolo Alitalia? Per avere una risposta precisa circa gli addebiti, bisognerà aspettare le motivazioni del giudizio di primo grado. Ma per coloro che in quegli anni non c’erano o non hanno seguito una delle storie più drammatiche e rappresentative del nostro Paese, forse gioverà ricordare su che terreno è maturato lo sfortunato epilogo dell’ex Compagnia di bandiera.
Alcune cifre, meglio di mille parole, possono aiutare a capire: nei 34 anni che hanno preceduto la bancarotta e dunque dal 1974, secondo uno studio di Mediobanca, la compagnia ha perso 5,1 miliardi, chiudendo in deficit 20 bilanci. Dal 1989 in poi 15 bilanci su 19 hanno registrato una perdita netta. Nello stesso periodo le risorse pubbliche assorbite sono ammontate, al netto dei pochi introiti, a 3,3 miliardi tra aumenti di capitale, contributi e altri oneri.
La gestione di Cimoli, partita tra grandissime speranze nel 2004, ha riguardato dunque gli ultimi 4 anni prima del crac. La vicenda di Francesco Mengozzi, amministratore dal 2001, dopo il fallimento dell’intesa con gli olandesi di Klm, e durata mille giorni, tra cui il famoso 11 settembre, è ancora diversa e più circoscritta, perché l’addebito riguarderebbe essenzialmente una controversa compravendita di aerei.
L’arrivo del «risanatore» delle Ferrovie invece matura in un clima da tragedia greca in cui a Cimoli è assegnata la parte del deus ex machina. Ma l’azienda ormai da anni naviga in un mare in cui i venti sono decisi dalla politica che indirizza anche le scelte più insignificanti: dall’elenco dei fortunati detentori della tessera «Freccia alata» al vincitore del sempre troppo ricco appalto delle pulizie, dalle massicce assunzioni agli avanzamenti di carriera dei sindacalisti, dal foraggiamento delle tante piccole e grandi società messe in piedi da (ex) dipendenti alle consulenze faraoniche assegnate agli amici di turno. In questo clima pretendere che i dipendenti, rappresentati dai sindacati, facessero il loro dovere e non si avvantaggiassero di stipendi lauti e finte malattie sarebbe stato eroico. La colpa degli amministratori che hanno contabilizzato le perdite, tutti, fino a Cimoli, è stata quella di fingere di non vedere e continuare a imbastire piani immaginifici, finanziati da soldi pubblici, fino al tracollo.
La successiva gestione dei privati, i «capitani coraggiosi», non ha risolto i problemi industriali e di mercato di Alitalia, ma ha almeno dimostrato che i costi potevano essere tagliati: bastava dire un «no» al mandante politico della propria nomina.