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 2015  settembre 28 Lunedì calendario

La burocrazia europea impone da decenni rigorose certificazioni anche per le sementi impiegate in agricoltura, proibendo ai contadini di scambiarsi tra loro i semi autoctoni migliori. Il risultato? Oltre il 50 per cento delle sementi è controllato da appena 5 multinazionali, e in sedici anni il costo per seminare un ettaro di soia è aumentato del 325%, mentre per uno di mais del 259%

A Isola Liri, in provincia di Frosinone, vive Antonio Taglione, ex agricoltore di 80 anni. Qualche settimana fa ha scritto una lettera al Fatto, a mano, le parole tracciate con cura. “Ci voglio mettere la faccia”. “Ho una pensione minima e riesco a stento ad arrivare a fine mese. Prima abitavo a Roma, ma da quando mi sono trasferito qui con mia moglie, ho trovato serenità coltivando un piccolo pezzo di terreno”, racconta dopo essere rientrato dal lavoro nell’orto. “Conosco la terra ma ho problemi a trovare semi autoctoni da piantare, quelli locali. Si vendono solo quelli delle multinazionali: ma perché devo comprarli?”.
Spiega che gli piacerebbe coltivare quelli tramandati da padre in figlio, selezionati in modo naturale dai suoi vicini di orto. “Quelli commerciali non portano fioritura, non danno buona resa. Richiedono l’uso di agenti chimici e pesticidi e non sono in grado di resistere ai cambiamenti climatici”. E costano tanto.
Maria Grazia Mammuccini è la vice presidente della divisione italiana ed europea di Navdanya International, un’associazione che sostiene il diritto del seme e della biodiversità in agricoltura. “Per secoli – spiega – sono stati i contadini a selezionare i semi: li conservavano e li isolavano scegliendoli dalla parte migliore del raccolto. Identificavano le piante e i frutti migliori e ne ricavavano i semi”. Una pratica, questa, che comprendeva anche lo scambio tra gli agricoltori.
“Era un modo naturale per fare in modo che le migliori varietà si fondessero, attenuando i difetti l’una dell’altra e potenziando la resa – spiega la Mammucini. Fino al dopoguerra, quando è subentrata l’agricoltura industriale. “Prima è stata introdotta la selezione dei semi da parte di enti scientifici. Poi, le grandi imprese sementiere hanno preteso che i semi fossero tutelati anche da diritti di proprietà intellettuale. Sono nate leggi, normative comunitarie: una varietà, per essere venduta, deve essere iscritta al Registro Nazionale delle Varietà, deve superare test e prove che durano anni”.
Il seme, infatti, deve dimostrare di corrispondere al cosiddetto Dus, deve essere distinto, uniforme e stabile. In parole semplici significa che le varietà devono avere caratteristiche chiare, che le distinguano l’una dall’altra, mentre i semi devono essere tutti uguali, dare la stessa resa e rimanere stabili nel tempo.
“La selezione scientifica – dice la Mammuccini – è una pratica che ha comunque portato ottimi risultati: non si può negare. Il problema è venuto dopo”. La certificazione ufficiale delle sementi è stata introdotta dalla Comunità economica europea negli anni Sessanta e, secondo chi sostiene il diritto alla biodiversità, di fatto impedisce ai piccoli contadini di gestire i loro raccolti liberamente, di scambiarsi e di vendere i loro semi.
“La certificazione è un sistema che si propone di tutelare l’utilizzatore, soprattutto se pensiamo alle migliaia e migliaia di piccoli agricoltori che le impiegano”, spiega al Fatto Marco Nardi, segretario generale di Assosementi.
Ma se la disciplina sementiera comunitaria e nazionale vieta la commercializzazione di sementi che non appartengano a varietà regolarmente registrate e che non siano certificate, i contadini, nonostante le regole, comprano e si scambiano i semi. Anche per risparmiare. “Esistono aree di illegalità diverse da specie a specie. Per il frumento duro, che è la specie più coltivata in Italia, la quota non certificata è vicina al 35 per cento del totale”. Per il grano tenero, il riso e la soia, la quota di seme non certificato utilizzato si aggira intorno al 20 per cento.
Il dibattito sulla libera riproduzione delle sementi va avanti da anni. Secondo uno studio dei Verdi europei, più del 50 per cento del mercato dei semi è controllato da sole cinque multinazionali: Pioneer, Syngenta, Monsanto, Limagrain e Kws. Se si aggiungono le altre aziende, si arriva anche al 70 per cento. Un monopolio che ha generato un veloce aumento dei prezzi: dal 1995 al 2011 il costo medio per seminare un ettaro di soia è aumentato del 325 per cento, mentre quello del mais del 259.
Inoltre, le piccole e medie aziende sementiere che vogliono essere autonome devono fare i conti con le multinazionali. Attualmente in Italia sono circa 300. Non tutte però producono semi propri, da vendere autonomamente. La maggior parte viene inglobata nella catena produttiva delle multinzionali e produce i semi per loro. “Sono circa 16mila gli agricoltori che ogni anno moltiplicano le sementi tramite contratti con le aziende sementiere – spiega ancora Marco Nardi. “E la moltiplicazione delle sementi ha riguardato nel 2014 circa 216mila ettari di campo”. Una catena di montaggio ad appalti. “Così il monopolio dei semi resta alle multinazionali che influenzano il mercato”, dice Mammuccini.
Antonio porta a passeggio il cane intorno al castello ducale di Isola del Liri. Ha capito tutto quello che succede, i problemi che ci sono.Condivide, approva alcuni passaggi, altri meno. Ma gli resta una domanda. “Perché dovrei comprare semi da chi non conosco, se invece posso farlo da Giovanni, il mio vicino. A chi facciamo del male? L’ho visto con i miei occhi: le sue piante sono migliori delle mie”.