Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2015
Quella del riordino delle partecipate locali è una lunga storia, che in questi anni è stata dominata dall’accoppiata della proroga e della deroga con il risultato che i vari tentativi, più o meno ambiziosi, sono entrati tutti nel tunnel dei rinvii per poi essere cancellati prima dell’attuazione
Per tutelare la concorrenza e il mercato, «gli enti locali cedono a terzi le società non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali». A dirlo è la legge finanziaria approvata nel 2007 dal Governo Prodi (gli amanti del genere vadano all’articolo 3, commi 27 e seguenti), ma otto anni dopo siamo ancora alla vigilia della “svolta” sulle partecipate, ora attesa dalla manovra e dai decreti attuativi della riforma Madia.
Quella del riordino delle società locali è una lunga storia, che in questi anni è stata dominata dall’accoppiata della proroga e della deroga con il risultato che i vari tentativi, più o meno ambiziosi, sono entrati tutti nel tunnel dei rinvii per poi essere cancellati prima dell’attuazione. La norma del 2007, dopo essere stata sospesa per anni, è addirittura resuscitata con la manovra 2014, che ha prorogato un termine ormai scaduto da tempo e dimenticato dai più. Entro la fine di quest’anno, di conseguenza, le partecipazioni contra legem ancora detenute da Regioni ed enti locali avrebbero dovuto “cessare”, secondo l’espressione non felice scritta nel 2007. Ma niente paura: il decreto enti locali di luglio è arrivato puntuale con la solita deroga, spiegando che la “cessazione” avrebbe riguardato solo le società da dismettere secondo i piani di razionalizzazione che le amministrazioni locali avrebbero dovuto scrivere in base alla manovra 2014: metà degli enti si è disinteressato di quest’obbligo (tanto non esiste una sanzione) e c’è da scommettere che la nuova scadenza di fine anno passerà senza troppi traumi.
Non hanno avuto miglior fortuna i tentativi del governo Berlusconi. Nel 2010 il primo di tanti decreti estivi anti-crisi vietò le partecipazioni ai Comuni fino a 30mila abitanti, consentendone una sola a quelli fra 30mila e 50mila. Anche in questo caso la catena dei rinvii è stata solo il prologo per l’abolizione della norma, arrivata tre anni dopo. Identico l’iter vissuto dalla spending review di Monti, che a metà 2012 se la prese con le società strumentali, cioè quelle che lavorano per la Pa proprietaria, imponendone la privatizzazione o la chiusura entro sei mesi: i sei mesi si sono presto trasformati in un anno e più, poi il tutto è stato cancellato dalla manovra del governo Letta.
Ora si ricomincia, con un approccio che secondo la legge Madia sembra più razionale, soprattutto nella parte in cui si concentra sulle società in perdita. Un’altra mossa annunciata è la chiusura delle “scatole vuote”, cioè le oltre 2mila società con più amministratori che dipendenti. Una misura utile a fare numero (sull’onda dello slogan da 8mila a mille) e a cancellare un po’ di posti di sottogoverno: ma non è certo con le scatole vuote che si fanno le liberalizzazioni.