Corriere della Sera, 28 settembre 2015
L’incredibile storia di Petra Pazsitka, la tedesca scomparsa nel 1984 dopo una visita dal dentista e tornata volontariamente al mondo pochi giorni fa, dopo 31 anni di oblio. Nel frattempo un muratore diciannovenne aveva persino confessato il suo omicidio, e appena quattro anni dopo la scomparsa lei era stata dichiarata morta. Dissolta nel nulla per dissidi con i genitori, è riapparsa dopo tre decenni solo per denunciare un furto
Tutti i figli hanno il diritto di scappare, ma tutti i genitori hanno il diritto di cercarli, inseguirli, chiedere in giro: «Chi l’ha visto?», che come si sa è anche una famosa trasmissione televisiva non solo italiana. Era questa l’opinione, semplice e sacrosanta, che il grande Beniamino Placido esprimeva spesso nel recensire la rubrica di RaiTre, un romanzo popolare nazionale che dura da oltre 25 anni. La scomparsa di una persona è uno dei motivi più ricorrenti della letteratura, dai tempi di Omero fino a Pirandello e oltre. Non c’è niente, più di una scomparsa, capace di terrorizzare alcuni e di affascinare altri, di atterrire e di attrarre. La scomparsa è il mistero per eccellenza, quello su cui, fino a prova contraria, ogni ipotesi è buona: dalla fuga volontaria all’omicidio, dal desiderio di una seconda vita (magari felice) alla soppressione violenta della prima.
Prendete la storia di Petra Pazsitka, una donna che il 26 luglio 1984, a soli 24 anni, scomparve dalla sua città, Braunschweig, nel Nord della Germania, e da allora non se ne seppe più nulla. Qualcuno la vide uscire dallo studio di un dentista alle tre del pomeriggio, un amico dichiarò di averle sentito dire che aveva intenzione di prendere un pullman per andare a trovare i genitori, a Wolfsburg, la città della Volkswagen. Ma Petra, con la sua borsetta nera di coccodrillo sulla spalla, con i suoi pantaloni rosa ben stirati, la sua giacca scura, gli occhialoni bruniti e la zazzera folta sulla fronte, scomparve senza lasciare alcuna traccia. Della sua presenza nel mondo. Dalla foto segnaletica sembrava una bravissima ragazza (probabilmente lo era), forse un po’ precocemente invecchiata, almeno nel portamento troppo composto e nel vestire sobrio fino al grigiore.
I genitori la cercarono ovunque. Fu aperta un’inchiesta, il cadavere non venne trovato, ma i sospetti caddero su un muratore diciannovenne, Günther K., già responsabile, un anno prima, dell’uccisione di una ragazzina in un bosco che si trovava nei paraggi della fermata dell’autobus in cui Petra fu avvistata l’ultima volta. Interrogato, il giovane ammise di avere eliminato anche Petra e la polizia si accontentò della confessione. Così il caso Pazsitka fu chiuso dopo quattro anni con la dichiarazione ufficiale di morte.
Fatto sta che in realtà la morta era viva: semplicemente non ne poteva più dei suoi genitori e aveva deciso di darsela a gambe, spostandosi da una città all’altra e rinunciando al suo vero nome e alla sua prima vita, documenti compresi (codice fiscale, tessera sanitaria, carte bancarie, passaporto, patente...). Aveva cancellato la propria identità dalla faccia della terra, compiendo l’autodelitto perfetto, cui aveva contribuito, chissà perché, un complice involontario.
Qualche giorno fa, però, le è bastato subire un banale furto nel suo appartamento di Düsseldorf per farla tornare sui suoi passi e per farle resuscitare Petra: così, spontaneamente, come nel 1984 era uscita dal mondo (e da se stessa), a 55 anni l’ex ragazza ha pensato bene di riprendersi la vera identità, confessando che il nome segnato sul citofono era finto. Per la giustizia, non c’è reato. Dopo averla dichiarata morta si tratta ora di farla rinascere anche per l’anagrafe.
Per trentun anni Petra Pazsitka ha provato a realizzare il sogno che tutti, almeno una volta nella vita (vera), abbiamo sognato: un’altra vita (nuova e fantastica) da cui ricominciare. Certo, il sogno di solito prevede almeno un’isola deserta, mare e sole, un paesaggio esotico di palme e bambù, come quello felicemente conquistato dal protagonista di «Onda su onda», la canzone di Paolo Conte. Si capisce che una fuga a tappe dalla Bassa Sassonia verso la Renania rischi di portare al pentimento.